SINTESI STORICA SUL BUDDISMO
Il Buddha storico, il principe Siddhatta (“colui che ha
raggiunto lo scopo”) Gautama, era figlio del
ràja
(una sorta di doge) della Repubblica Aristocratica dei Sakija, Suddhodana,
che aveva capitale a Kapilavatthu, ai confini tra India e Nepal, alle
pendici dell’Himalaya, a 200 chilometri da Benares.
Concepimento, nascita ed infanzia
Siddhatta nacque, secondo la Cronologia di Ceylon, la più
accreditata, attorno al 563 a.C. Maya, sua madre, sposa prediletta del
ràja,
in ossequio alle tradizioni del luogo, quando sentì che mancava poco al
momento del parto, abbandonò il palazzo di suo marito e si recò alla casa
paterna. Maya era abbastanza serena, nonostante tutti i pericoli che
comportasse a quel tempo far nascere un bambino: secondo una leggenda,
infatti, la donna sognò che un elefante bianco scendeva dal cielo e
deponeva sul suo grembo un fiore di loto, per poi penetrarle interamente
nel corpo. Durante una sosta del lungo viaggio, Maya entrò in uno stupendo
giardino, quello del villaggio di Lumbinì, e qui partorì Siddhatta.
Qualche giorno più tardi, Asita, un vecchio eremita che
viveva sulle montagne, scese in città e fece visita al
ràja:
aveva previsto, infatti, che il principe appena nato avrebbe avuto
successo in politica, ma anche e soprattutto nella sfera religiosa.
Suddhodana fu sconvolto della profezia. Una settimana dopo, la giovane
sposa di Suddhodana morì, e il bimbo fu affidato alla sorella della
defunta, Mahapajapati, che rinunciò persino ad educare suo figlio, Nanda,
per curare la crescita del piccolo.
Siddhatta, nel corso degli anni, non dimostrò una particolare predisposizione per le attività militari e motorie. E’ dubbia anche la sua alfabetizzazione, dato ché, a quel tempo, un guerriero non aveva la necessità di imparare a leggere e a scrivere. Quando il ragazzo era ancora molto giovane, Suddhodana gli progettò un matrimonio combinato, nello stile dell’epoca, con una delle figlie di sua sorella. Ai due sposi furono donati ben tre palazzi: uno per l’estate, un altro per l’inverno ed un terzo per la stagione delle piogge. Qualche tempo dopo le nozze, Yasodharà, questo il nome della moglie, diede luce ad un bambino, Ràhula.
Incontri e rinunce
Siddhatta era sempre vissuto ignaro dell’esistenza della sofferenza e del dolore: il padre, infatti, aveva deciso di ammettere a corte soltanto delle persone giovani.Un giorno, però, mentre stava camminando nella città con un auriga, il ragazzo vide un uomo che si trascinava a fatica sulle proprie gambe: era un vecchio. Avrebbe potuto lui, principe dei Sakija, sfuggire ad una simile sorte? L’auriga rispose negativamente. Diverso tempo dopo, i due si imbatterono in un tizio che respirava a fatica. Chi era? Era un malato. Siddhatta avrebbe potuto evitare questo destino? No. Successivamente, incontrarono un corteo funebre. Stessa domanda da parte di Siddhatta, stessa risposta dell’auriga.Nessuno poteva, dunque, sfuggire alla sofferenza? Il ragazzo, giorni dopo, trovò un uomo con la testa rasata che mendicava nelle vie della città: era un samana, un rinunciatario. Costui destò grande ammirazione nel cuore del principe: probabilmente, infatti, una vita del genere avrebbe permesso di sfuggire al ciclo del dolore. Suddhoddana, però, quando il figlio gli chiese di poter abbandonare tutto e di mettersi anch’egli alla ricerca, oppose un severo veto. Fu così che Siddhatta, da figlio ribelle, fuggì di notte dal palazzo assieme al fedele scudiero Channa.Vita da samanaLa mattina successiva, Siddhatta salutò Channa e si addentrò in una foresta, dopo aver scambiato le proprie sfarzose vesti con quelle di un povero cacciatore. Nel corso del suo lungo peregrinare, incontrò diversi maestri: il primo di essi fu Alara Kalama, che predicava l’annullamento della distinzione tra l’Io e gli altri come punto centrale della propria dottrina. Il punto debole della visione di Alama consisteva però nel fatto che credesse nell’attà induista, una sorte di Io interiore separato dal corpo, che vive in eterno nonostante le reincarnazioni. Raggiunti gli stessi risultati del maestro, Siddhatta non accettò da Kalama la proposta di cogestire con lui la scuola, e se ne andò nei pressi di Rajagaha.Qui incontrò Uddaka Ramaputta, samana molto noto per i suoi insegnamenti, che teorizzavano l’accesso ad una dimensione intermedia tra la coscienza e la non coscienza. Anche in questo caso, l’allievo eguagliò il maestro, che gli offrì addirittura la gestione della scuola, ricevendo una risposta negativa.E’ chiaro che Siddhatta, a quel punto, non si sentisse soddisfatto delle dottrine altrui, e si decise a mettersi in proprio. Incominciò un lungo periodo di mortificazioni fisiche, di digiuni e di torture. Il suo corpo deperiva ogni giorno di più, così come il suo spirito, che non otteneva alcun risultato positivo. L’unica nota buona di questa esperienza fu l’ammirazione da parte di un gruppo di cinque asceti, che lo abbandonarono indignati, però, quando accettò una scodella di riso offerta da Sujata, una ragazza di tredici anni. Da quel momento, cominciò una nuova parte dell’esistenza di Siddhatta, sicuramente più prolifica umanamente e religiosamente.L’illuminazioneGautama accettò anche altro cibo, trovò nuove vesti, si lavò, ritemprandosi nell’animo e nel corpo. In seguito, cercò un albero sotto il quale meditare, fino al risveglio. Trovò un fico (bodhi, da cui deriva il termine bodhisatva) e prese posto sotto i suoi rami. La figura dell’albero non compare a caso in questa storia: essa, infatti, ha valori simbolici molto forti non solo in India, ma in tutto il mondo, poiché rappresenta una sorta di collegamento tra cielo e terra, tra mondo materiale e spirituale, tra umano e divino. Qui rimase per diverse notti, finché non raggiunse lo stadio di arahat (santo, illuminato). Secondo la tradizione canonica, quattro furono i momenti della sua meditazione, scanditi da altrettanti esercizi di contemplazione.Nel primo, volto ad eliminare i desideri sensuali e la negatività, si concentrò in una sola direzione. Nel secondo, teso a far cessare il cosiddetto “pensiero discorsivo”, abbandonò l’uso della ragione e delle parole. Nel terzo, finalizzato al distacco dal mondo e ad un conseguente stato di benessere fisico, rifiutò il contatto con le cose e divenne imperturbabile. Nel quarto, infine, riuscì a sopprimere una volta per tutte la sofferenza e a raggiungere una condizione di perfetta beatitudine. Fu così che Siddhatta, ora diventato Buddha, l’Illuminato, apprese l’esistenza di un ciclo di rinascite (samsara) a cui la liberazione dal dolore (nibbana) può porre fine. Per conseguire il nibbana, però, è necessario distruggere i quattro “influssi” negativi della vita: il desiderio sensuale, la voglia di esistere, l’ignoranza, l’opinione. A sua volta, la soppressione degli influssi a legata ad un corretto comportamento etico, che permette di conoscere e sfuggire alle leggi del kamma, ovvero a quell’insieme di azioni delle vite precedenti che condizionano l’attuale.A quel punto, il Buddha si sentì soddisfatto dei risultati raggiunti, ma incerto se diffondere o meno la dottrina acquisita, così complessa e difficile. Secondo il mito, scese allora dal cielo il dio Brahma, creatore dell’universo nella trimurti indiana che, accusando il mondo presente di decadenza e rovina, convinse, dopo numerose esortazioni, l’arahat ad intervenire.
Il
Dhamma
Diventato
Buddha, Siddhatta ritenne necessario, come prima cosa, diffondere la
propria dottrina tra i suoi cinque ex – compagni di cammino spirituale,
che lo avevano lasciato, delusi, qualche tempo prima. Questi si trovavano
a Benares, e fu lì che il Buddha fece il suo primo discorso, noto col nome
di Sermone di Benares, che segnò la messa in moto della ruota della
Legge (Dhamma), ovvero l’inizio della predicazione nel mondo.
Approfittiamo di tale occasione per illustrare, oltre ai contenuti
enunciati nel Sermone, alcuni elementi essenziali della filosofia
buddhista.
Le
quattro nobili verità
Nel corso
del suo risveglio, il Buddha apprese quattro verità sullo stato
dell’esistenza umana:
1.
La vita è sofferenza,
e la sofferenza si manifesta nella nascita, nella vecchiaia, nella
malattia, nella morte, nell’unione col detestabile, nella separazione
dall’amabile e nei cinque aggregati della persona: conformazione corporea,
percezione, intenzione, coscienza, sensazione.
2.
La sofferenza trova origine nella sete di
esistere e nei piaceri: ogni piacere, infatti,
per quanto bello esso sia, è qualcosa di transitorio, di impermanente,
come del resto è transitorio tutto il mondo (vedi La teoria della
produzione condizionata).
3.
La sofferenza può cessare con il distacco
dalla sete di esistere e dai piaceri.
4.
Il distacco dalla sete di esistere e dai
piaceri avviene solo col percorrere correttamente l’ottuplice sentiero.
L’ottuplice sentiero
Il primo momento di cammino sull’ottuplice sentiero è costituito dalla retta visione, ovvero dalla conoscenza delle quattro nobili verità, che elimina l’ignoranza.
Il secondo,
la retta intenzione, vuole che ci si astenga in pari misura
dall’amore e dall’odio, scegliendo la rinuncia.
Il terzo, la
retta parola, esige che venga tolta dai propri discorsi qualsiasi
forma di impurità, come la menzogna o la calunnia.
Il quarto è
la retta attività, secondo la quale è necessario adottare un
comportamento morale corretto, quasi esemplare, evitando il delitto e
l’eccesso.
Dalla retta
attività deve derivare una retta modalità di sussistenza, cioè
l’esercitare attività lecite e coerenti con la propria etica.
Il sesto
momento, poi, riguarda il retto sforzo, l’impegno ad eliminare ciò
che di negativo sussiste nel proprio animo.
Bisogna
possedere, infine, una retta attenzione sui quattro oggetti di
meditazione (corpo, sensazioni, mente, stati d’animo) e una retta
concentrazione sulle quattro tecniche meditative che lo stesso Buddha
praticò nella notte del Risveglio.
La “catena” della produzione condizionata
La tradizione
Scolastica Buddhista attribuisce a Gautama anche una teoria, la teoria
della cosiddetta “produzione condizionata”, secondo la quale ogni
sofferenza è legata indissolubilmente ad un'altra, in una catena di “causa
– effetto” che opprime l’individuo e lo lega alla sofferenza e al ciclo
della reincarnazione.
Il primo
anello della catena è costituito dall’ignoranza, che permette la
nascita di tutti gli altri. L’ignoranza è riferita in particolar modo ad
alcuni ambiti: l’origine e la fine delle cose, ciò che è interno e ciò che
è esterno alla persona, le azioni ed i loro frutti, i tre Rifugi (Buddha,
Sangha, che illustreremo in seguito, e Dhamma), le quattro nobili verità,
il bene ed il male, la capacità di distinguere e le condizioni causali di
tutte le cose. Effetti diretti dell’ignoranza sono gli errori e la
stupidità.
Il secondo
anello è rappresentato dalle impressioni (gli effetti del kamma sul
corpo, la voce e la mente), il terzo dalla coscienza (l’elemento
che coordina i 5 sensi più il senso psichico), il quarto dall’attaccamento
alla teoria del “nome/forma” (cioè il voler ricondurre gli oggetti
alla configurazione corporea, agli aggregati e ai 4 elementi), il quinto
dalle sfere sensoriali, il sesto dal contatto (mediante il
quale relazioniamo ogni organo sensoriale col suo oggetto, ad esempio
l’occhio col visibile).
Il settimo anello è relativo alla sensazione (piacevole, spiacevole e neutra), l’ottavo alla sete del desiderio (per la quale ricerchiamo ciò che è piacevole ed evitiamo lo spiacevole), il nono alla formazione di una propria personalità (ovvero al credere di poter essere indipendenti, anche tramite la manifestazione di opinioni, e incondizionati dai precedenti anelli), il decimo all’esistenza (cioè alla creazione di un nuovo essere vivente), l’undicesimo alla nascita ed il dodicesimo, l’ultimo, alla decadenza, la vecchiaia, e alla morte.
Solo
eliminando il primo anello, l’ignoranza, è dunque possibile distruggere
anche gli altri undici ed accedere finalmente al nibbana, meta
ideale di ogni buddhista.
Nibbana e Parinibbana
E’ molto
difficile spiegare, in Occidente come in Oriente, cosa significhi
esattamente il termine nibbana. Forse perché tentare di darne una
visione logica impedirebbe sempre e comunque di capire pienamente a questo
concetto. La cosa che diamo per certa è che solo l’estinzione del dolore
possa permettere di accedere al nibbana. In merito a tale insegnamento,
esiste, nella tradizione buddhista, una figura metaforica abbastanza
calzante: la ruota del vasaio, che gira in seguito ad una spinta (il kamma),
finché non si esaurisce l’energia della stessa spinta. E’ possibile,
tuttavia, che l’esistenza, il giro della ruota, continui anche dopo
l’arrivo al nibbana, per esaurire gli ultimi residui del kamma, che non
può comunque nuovamente accumularsi. L’arahat (il santo buddista,
almeno nella tradizione del Piccolo Veicolo, che osserveremo in seguito),
allora, continua a vivere, fino a quando la sua vita si spegne
definitivamente nel parinibbana, lo stadio ultimo del nibbana, che
può essere raggiunto solo con la morte corporale. Il parinibbana, a detta
di molti, rappresenta, più che un luogo, una condizione dell’animo di
appagamento e soddisfazione. Anche questa, però, è una teoria, definita
con uno strumento, il linguaggio, che lo stesso Buddha non vedeva di buon
occhio.
Il
Sangha
Le cinque persone che assistettero al Sermone di Benares furono i primi a convertirsi al Dhamma e a diventare così bhikkhu (monaco che aspira all’illuminazione). La formula che il Buddha pronunciò fu questa: “Vieni, bhikkhu, la dottrina è proclamata; conduci dunque una vita nobile, per la completa cessazione del dolore”.Con l’ordinazione, i bhikkhu accettavano, oltre ché di eseguire i vari metodi di concentrazione e la meditazione, il rispetto delle seguenti norme etico – morali:1. Radersi barba e capelli.2. Indossare solo una veste giallo – ocra (passata poi alla storia come tratto distintivo del monaco buddhista).3. Astenersi dal furto, dall’omicidio, dalle relazioni sessuali, dalla menzogna, dalla calunnia e da qualsiasi forma di spettacolo.4. Mostrare un atteggiamento compassionevole nei confronti di tutti gli esseri viventi, evitando di distruggere alcuna forma di vita, vegetale e animale.5. Fare un solo pasto al giorno, senza carne cruda.6. Accontentarsi del proprio destino, rifiutando dono come campi e proprietà.7. Imparare a purificare i propri sensi, senza contaminarli con le passioni.8. Liberarsi dall’attrazione e dalla repulsione nei confronti delle cose.In seguito alle prime cinque ordinazioni, nacque il Sangha, la Comunità, che costituisce, come già accennato, uno dei tre Rifugi per il fedele, insieme al Dhamma e allo stesso Buddha.
Conversioni monastiche
Il primo laico (che, cioè, non aveva un passato da samana sulle spalle) a divenire bhikkhu fu il giovane Yasa, figlio di un ricco commerciante di stoffe di Benares. La storia di Yasa somiglia per alcuni versi a quella del figliol prodigo evangelico: egli, infatti, viveva nel lusso e nella dissolutezza più sfrenati, ma non era soddisfatto della sua situazione, avvertendo nell’animo un senso di vuoto e di disagio. Dopo aver conosciuto il Buddha, che gli impartì una sorta di insegnamento progressivo (partendo dalle norme etiche, giunse lentamente ai dettagli dottrinali), Yasa scelse di entrare a far parte del Sangha e di “prendere i voti”.Altre conversioni molto importanti furono quelle dei fratelli Kassapa, che gestivano due monasteri poco distanti tra loro, entrambi devoti al dio del fuoco. Il Buddha impiegò molte energie per convincerli della validità del Dhamma (qualcuno parla anche di magie!) ma, alla fine, i due Kassapa entrarono nel Sangha, e con loro tutti i monaci delle comunità che dirigevano.Il Buddha raccolse, tra gli altri, anche adepti all’interno della sua famiglia: tornato nella sua città, Kapilavatthu, infatti, convertì il figlio Ràhula, che nel frattempo era cresciuto, il fratellastro Nanda e due cugini, Ananda e Devadatta, il primo dei quali diventò attendente dell’Illuminato, mentre il secondo provocò una grave crisi. Il padre, dal canto suo, fece di tutto per far rimanere Siddhatta in città: arrivò persino a proporgli la cessione del potere! Il Maestro, però, fu inflessibile: il suo compito era un altro.
Conversioni laiche e sostenitori
Secondo le fonti più attendibili della tradizione buddhista, il padre di Yasa fu la prima persona ad accettare il Dhamma in qualità di laico. Ciò significa che avrebbe dovuto praticare tali precetti:1. Non uccidere esseri viventi.2. Non prendere ciò che non viene donato.3. Non dedicarsi a pratiche sessuali illecite.4. Non mentire.5. Non bere bevande inebrianti.Tra i fedeli laici, il Buddha trovò anche numerosi sostenitori molto rilevanti sul piano politico: uno di questi fu il re Bimbisara, al quale il giovane samana Siddhatta aveva promesso, tempo prima, una visita nel caso in cui avesse trovato le risposte che cercava.La Comunità, così ampliatasi a tal punto da avere anche un certo peso culturale e sociale, si trovò a dover risolvere i primi problemi di carattere organizzativo e strutturale.
Prime
contestazioni
Molta gente, sostenuta dai brahmani, che stavano perdendo notevolmente dei consensi e, quindi, delle ricchezze, criticava la scelta dei bhikkhu, che abbandonavano le proprie famiglie per una vita solitaria e antisociale, mettendo così in serio pericolo l’equilibrio della società.Il Buddha, a queste accuse, rispose di non voler predicare l’infrazione delle norme sociali, ma, al contrario, il rispetto della Legge, giocando in questo modo su uno dei significati di Dhamma (“Dottrina” o, appunto, “Legge”). Le fonti canoniche raccontano che le proteste scomparvero dopo una settimana circa, anche se il dato sembra alquanto irreale.La questione delle casteAll’esterno della Comunità, il Buddha non fece pressoché nulla per eliminare il rigido sistema delle caste indiano. All’interno del Sangha, però, abolì ogni distinzione tra sacerdoti, guerrieri, commercianti e artigiani: ogni persona poteva entrare nell’Ordine, incondizionatamente dal suo diritto di nascita; solo gli stolti venivano esclusi, perché avrebbero ostacolato l’insegnamento. Per tutti, dunque, valeva il detto: “L’uomo dotato di saggezza e buona condotta – lui è il migliore tra dèi e uomini”.Laici e monaciIl rapporto tra laici e monaci fu abbastanza armonioso e redditizio: i primi, in genere, avevano il compito di fare l’elemosina ai secondi, che potevano così tentare di divenire Illuminati senza impedimenti di tipo economico. Poteva, però, un laico accedere al nibbana? Secondo la tradizione più ortodossa, quella del Piccolo Movimento, no: il massimo a cui poteva aspirare un laico era conformarsi al Dhamma per creare le condizioni favorevoli per rinascere come monaco. L’altra corrente del Buddhismo, però, il Grande Veicolo, non era d’accordo: il motivo lo osserveremo più avanti.La questione delle donneEra possibile, per una donna, divenire bhikkhu? La questione si aprì quando Mahapajapati, anziana madre adottiva di Siddhatta, chiese di aderire al Sangha. La risposta del Buddha fu nettamente negativa: secondo alcuni testi, infatti, dubitava persino delle capacità intellettive del sesso femminile ed invitava gli uomini a non rivolgere alle donne nemmeno il saluto! La ragione di tale forte disprezzo è da ricercare non nella persona del Maestro, che probabilmente non pronunciò sentenze così ardite, ma nella figura del monachesimo medioevale, occidentale come orientale, che, secondo alcuni filosofi, come Nietzsche, predicava la vita, ma giungeva poi a negarla.Disquisizioni a parte, proseguendo sul filo della narrazione delle vicende di Mahapajapati, incontriamo la donna che convince Ananda a sostenere la causa femminile dinnanzi al Maestro. Il Buddha, accettata finalmente la richiesta, propose però otto norme supplementari per le bhikkuni, le donne del Sangha, che sancirono di fatto la loro sottomissione ai corrispondenti maschili.Lo scisma di DevadattaOrmai anziano, il Buddha dovette affrontare un’altra grave crisi, all’interno del Sangha, forse la peggiore tra tutte: quella dello scisma di Devadatta. Costui, che era, ricordiamolo, cugino del Maestro, aveva l’intenzione di prendere il suo posto alla guida della Comunità, intenzione che manifestò in occasione di una riunione. Il Buddha respinse fortemente l’idea: non si sentiva ancora così stanco da dover abbandonare il suo ruolo e, inoltre, non aveva scelto Devadatta come suo successore.L’ambizioso bhikkhu, allora, contrattaccò, proponendo cinque norme supplementari per i monaci, con l’apparente intento di rafforzare il loro rigorismo ascetico: dormire nelle foreste, e non nei luoghi abitati, supportarsi solo con le elemosine, rifiutando gli inviti, cucirsi da soli i vestiti, respingendo i doni dei laici, evitare qualsiasi tipo di riparo per la notte (capanne o altro) e praticare una dieta il più possibile vegetariana. Anche in questo caso, il Maestro si trovò in disaccordo col suo discepolo: il rigore ascetico dei bhikkhu era garantito a sufficienza dalle regole attuali, e l’applicazione di queste ulteriori cinque avrebbe impedito la diffusione della Dottrina tra i laici.Devadatta, che voleva in realtà far apparire Siddhatta come un nemico dell’ascetismo, uscì dalla Comunità, seguito da molti altri monaci, e fondò un nuovo convento.Due valenti allievi del Buddha, allora, Sariputta e Moggallana, si intrufolarono nel neonato ordine, con l’intenzione di ricucire la divisione, e riconvertirono al Sangha molti seguaci del monaco ribelle, soprattutto i più giovani. Lo stesso Devadatta, in punto di morte, fu perdonato dal Buddha, anche se la cosa ci sembra alquanto improbabile: un viaggiatore cinese, infatti, raccontò di aver visitato il monastero dei secessionisti tanti secoli dopo.
La
morte del Buddha
Passarono ancora diversi anni. Il Buddha, sentendosi prossimo alla fine, chiamò a sé tutti i suoi discepoli e ribadì i capisaldi del Dhamma: oltre alla varie norme dottrinali, esortò i bhikkhu al rispetto dell’etica e dei suoi fondamenti, la compassione e la gentilezza. Vedendo, poi, che qualche monaco si rattristava dell’imminente perdita della sua guida, disse ai presenti che, nell’universo, nulla è eterno, ma tutto è transitorio, e li lasciò con una raccomandazione: “attingete la perfezione con zelo”. Detto questo, spirò.Subito si scatenò, secondo la tradizione canonica, un grande terremoto, ed il cielo si oscurò. Dopo la cerimonia di cremazione, molto breve e semplice, come nel carattere del Maestro, si pose il problema della spartizione delle reliquie: gli abitanti di Kusinàra, infatti, città in cui era avvenuto il decesso, le volevano tutte per loro, mentre altre comunità locali insistevano per la divisione. Fu il bramano a risolvere il contenzioso, rimproverando le parti in causa di voler scatenare una guerra per l’approvvigionamento dei resti. Ogni reliquia, allora, fu seppellita in un’urna funeraria, la stupa, e resa oggetto di venerazione in molte zone del grande paese indiano.
Dopo il Buddha
Una dottrina da chiarire
Dopo aver
riscontrato numerose lacune e incongruenze nell’educazione dottrinale di
diversi monaci, gli amici più fidati di Siddhatta decisero di convocare
una riunione di tutti i membri del Sangha per chiarire la Dottrina e gli
eventuali culti della nuova “religione” (termine, questo, che molti
giudicano improprio, se riferito al Buddhismo). Si proclamò, allora, il
primo di quattro Concili che cambiarono per sempre la storia del Buddhismo:
Ananda, il “segretario” dell’Illuminato, fu chiamato a recitare a memoria
i discorsi del Maestro sul Dhamma, mentre Upali, un altro monaco, espose
le regole di vita prescritte per il Sangha; insegnamenti e norme furono
raccolti in un secondo momento nel cosiddetto Canone. Già nel primo
Concilio, poi, vennero alla luce le divergenze che cominciavano a crearsi
tra l’ortodossia dei monaci più anziani e la voglia di innovazione di
quelli più giovani. Tali spaccature andarono ad accentuarsi nel secondo
nel terzo Concilio, nel corso del quale si sancì definitivamente la
separazione tra i due gruppi, ed infine nel quarto, dove si proclamarono
la nascita della corrente del Piccolo Veicolo (Hinayana), formata
dai monaci più “intransigenti”, e quella del Grande Veicolo (Mahayana).
Piccolo e Grande Veicolo
Prima di
addentrarci nel grande universo delle scuole di pensiero buddhista dei
nostri giorni, è necessario comprendere le differenze tra i due movimenti
che furono all’origine della loro creazione: il Piccolo e il Grande
Veicolo, appunto.
Ø
La corrente del Piccolo Veicolo (Hinayana)
è chiamata così perché, se paragonata ad un’imbarcazione diretta verso il
nibbana, a differenza del Grande Veicolo, che può ospitare molte persone,
è accessibile solo ad un numero ristretto di eletti, cioè coloro che
accettano di praticare una vita ascetica e priva di desiderio,
spogliandosi di tutti i legami col mondo esterno. Solo così, infatti, un
fedele potrà diventare arhat, maestro, e raggiungere gli stessi,
sublimi livelli di conoscenza di Gautama. Gli unici testi sacri sono
quelli del Canone, divisi in tre “canestri”: quello della disciplina,
quello dei discorsi del Buddha ed infine quello riguardante la Dottrina.
L’unica scuola che oggi pratica ancora una forma ortodossa di Buddhismo,
ed è dunque considerabile parte del Piccolo Veicolo, è la scuola
Theravada.
Ø
La corrente del Grande Veicolo (Mahayana)
è aperta non solo alla vita monacale, ma contempla al proprio interno
anche una viva e attiva partecipazione dei laici. Ogni vivente, secondo la
dottrina Mahayana, è circondato di una essenza, l’Essenza del Buddha, che
può permettergli di raggiungere l’Illuminazione. La figura del Maestro,
dunque, è sostituita da quella di bodhisattva: un essere che,
avendo sfruttato al meglio la propria Essenza, ha raggiunto il nibbana, ma
non può accedervi che dopo la liberazione finale (interpretabile, se
vogliamo, in maniera escatologica) di tutti i viventi della terra. Il
bodhisattva, allora, deve aiutare le persone a liberarsi dal ciclo delle
rinascite e, per farlo, utilizza i due strumenti che la tradizione da
sempre gli attribuisce: la saggezza e la compassione. I testi sacri del
Grande Veicolo sono di due tipi: esistono i sutra (i discorsi del
Buddha) e i sastra (trattati e commenti speculativi). Il sutra più
noto di tutti è il Sutra del loto: in esso, si predica
l’uguaglianza degli esseri del pianeta, che possiedono tutti l’Essenza del
Buddha, e la continuità della vita (una sorta di pànta rei
buddhista).
Esistono,
inoltre, numerose tradizioni intermedie, o completamente discostanti, dai
due Veicoli. Di seguito, citiamo le più importanti.
Ø
La tradizione del Veicolo di Diamante (Vajrayana)
prevede degli insegnamenti di carattere esoterico, cioè non accessibili a
tutti. Una grande importanza, in questa corrente, è rivestita dai simboli:
i mandala (costruzioni grafiche che facilitano la meditazione), i
mudra (gesti delle mani) e i mantra (ripetizione, talora
ossessiva di parole o preghiere uguali). Il Veicolo di Diamante trova
largo seguito in Tibet, dove assume lentamente il nome di Lamaismo (da
blama, maestro).
Ø
La tradizione della Via di Mezzo (Madhyamika)
si fonda sull’interpretazione del concetto di vacuum, vuoto. Tutti
gli oggetti e gli esseri viventi del mondo, secondo i seguaci di tale
scuola, sono legati tra loro dalla catena della “produzione condizionata”
(vedi il primo capitolo della ricerca) ed esistono soltanto l’uno in
relazione all’altro. Il vuoto altro non è che una dimensione, posta a metà
strada tra l’essere ed il non – essere (da qui la Via di Mezzo), che è
presente indifferentemente da tutte le altre cose. Già utilizzare, però,
il termine “è presente” diviene errato: anticipando, dunque, buona parte
della filosofia del Novecento, la Via di Mezzo nega l’importanza del
linguaggio come mezzo per spiegare i concetti, ed apre la strada ad
un’interpretazione del pensiero più intuitiva e meno razionalizzata.
La scuola Theravada
La tradizione
Theravada, come già accennato, è l’unica rimasta in vita tra le numerose
del Piccolo Veicolo. Essa prevede un forte rigore monastico e una forte
meditazione individuale, attraverso i quali si può accedere allo stadio di
araht. I bhikku, i monaci, sono le uniche persone in grado di svolgere
queste funzioni: il buddhista perfetto, infatti, secondo la scuola
Theravada, deve liberarsi di tutti i legami con la realtà e di tutte le
passioni. L’insegnamento si svolge in due fasi: nella prima fase (samatha)
si assume uno stato di quiete e di passiva tranquillità, distaccandosi
piano piano da tutti gli stimoli della mente e del corpo, mentre nella
seconda (vipassana) avviene la presa di coscienza del fatto che
tutti i fenomeni sono transitori, portano dolore e non hanno una propria
natura, ma sono semplicemente frutto della “produzione condizionata”. In
seguito a questi due momenti di meditazione, il bhikku comincia a salire
verso lo stato supremo di araht. Il ruolo dei laici, nel Theravada, è
molto ristretto: essi possono solo comportarsi bene e meditare per
rinascere poi come bhikku e tentare l’Illuminazione; devono, inoltre,
sottostare, come i monaci, ad una serie di norme etiche: non uccidere
alcun vivente, astenersi dal furto, dalla lussuria e dal consumare bevande
alcoliche.
La dottrina
Theravada è molto diffusa nel Sud – Est Asiatico, anche se negli ultimi
anni è stata rimpiazzata dalla crescente diffusione dell’Islam. Importante
è stato il contributo educativo dei suoi monasteri, dove si conservano
libri e trattati, non solo di carattere religioso, in età antica.
Il Buddhismo tibetano
La forma più
conosciuta e diffusa al mondo di Buddhismo Mahayana è sicuramente quella
tibetana. Il Buddhismo tibetano (che riprende la tradizione del Veicolo
del Diamante) nasce con l’antico incontro tra la neonata filosofia indiana
e la religione arcaica del Tibet (bon). Non è a caso, dunque, che
ancora oggi il lamaismo (altro nome col quale è noto il Buddhismo
tibetano) si avvalga di molteplici e complesse forme di culti, sacrifici,
divinazioni, per ingraziarsi le divinità ed ottenere in questo modo più
facilmente l’Illuminazione. La figura al centro dell’intero sistema
spirituale è quella del lama, il maestro, per lo più un monaco, che
guida i propri discepoli verso la totale comprensione della realtà e
dell’esistenza. Il lama utilizza particolari metodi per istruire se stesso
e coloro che lo seguono, dei quali quattro in particolare sono da
ricordare: i mantra, i mudra, i mandala (al significato dei quali abbiamo
già accennato) e i tantra. I tantra sono tenuti in particolare
considerazione per l’apprendimento della dottrina e la prosecuzione della
ricerca: partendo, infatti, dal presupposto che nessun uomo possa
liberarsi improvvisamente di tutte le proprie passioni (sensuali,
istintive, etc.), essi tendono a “spiritualizzare” tale aspetto dell’animo
umano e a volgerlo in senso positivo verso una continua crescita
religiosa. Si farà uso di questi, allora, per migliorare ad esempio il
rapporto di coppia, e permearlo di un alone di magia e mistero. I tantra,
però, non devono essere considerati come un punto di arrivo, ma come un
punto di partenza o, quanto più, di passaggio: essi, infatti, devono
essere sostenuti dalle due virtù buddhiste per eccellenza: la compassione
(che libera gli esseri viventi dalla sofferenza) e la saggezza (che,
tramite l’intuizione, conduce alla conoscenza).
La versione
tibetana del Veicolo di Diamante e, fino al 1959, anno in cui avvenne
l’invasione cinese, anche lo stesso Tibet, è capitanata da due autorità:
il Dalai Lama (reincarnazione del bodhisattva Avalokiteshvara,
dotata, oltre ché di potere spirituale, di potere temporale) e il
Panchen Lama (guida unicamente religiosa).
Il
Buddhismo Zen
Il Buddhismo
Zen (o Ch’an, come era noto in Cina) si diffuse, partendo dal continente
asiatico, in modo particolare in Giappone e Corea. Esso è la parte più
radicale e, per certi versi, “rivoluzionaria”, del Grande Veicolo. Il
concetto che troviamo al centro della dottrina Zen è quello di risveglio (zen,
appunto). Lo zen devono avvenire, secondo i cultori di tale corrente, in
maniera del tutto improvvisa e personale: deve scaturire dal cuore
dell’uomo, infatti, “con la stessa impetuosità di un fiume in piena”. Non
ci sono regole particolari che muovono lo Zen, perché sarebbe
inappropriato stabilire leggi che si adattino agli animi di tutti gli
uomini. Esistono, tuttavia, sistemi di insegnamento molto forti e
particolari, che ruotano tutti intorno ad una constatazione: il soggetto
deve abbandonare tutte le sue convinzioni (viste, in questo caso, come
pregiudizi) per accedere alla verità. Lo stesso linguaggio viene
considerato come una forma imperfetta di comunicazione, che deve essere
superata in tutto e per tutto in quanto all’essere ritenuta come strumento
di conoscenza. Per dimostrare l’inesattezza della logica linguistica
(quella, cioè, che ci permette di ragionare secondo le parole, intese come
rappresentazioni di idee), lo Zen utilizza delle particolari narrazioni (i
koan, che possono essere indovinelli o storie) che presentino
situazioni reali, sì, ma al limite dell’assurdo e del paradosso. Ad
esempio:
ALLIEVO: In
quale modo posso essere liberato?
MAESTRO: Chi
ti tiene prigioniero?
ALLIEVO:
Nessuno mi tiene prigioniero.
MAESTRO:
Allora perché vuoi essere liberato?
Un altro modo
per raggiungere il risveglio è la mistica lavorativa, cioè
l’applicazione meditativa in un determinato campo del lavoro manuale.
Esempi molto chiari di mistica lavorativa sono la coltivazione dei bonsai,
la preparazione della cerimonia del tè, il tiro con l’arco. Essi svuotano
la mente dell’illusoria falsità della speculazione e la riempiono della
chiara e limpida aura della verità.
Buddhismo e Occidente
Le maggiori
differenze tra il Buddhismo e la cultura occidentale, che hanno creato,
una volta fraintese ed esasperate, reciproche diffidenze e divisioni, si
riscontrano non solo sul piano filosofico, ma anche e soprattutto
sull’applicazione sociale della dottrina. Il concetto al centro
dell’intero Cristianesimo, la religione che ha più influenzato l’Occidente
nel corso della sua storia, è quello del Dio Uno e Trino. Nel Buddhismo,
al contrario, non si prevede la presenza di un Dio creatore ed ordinatore
dell’universo, e tanto meno di un Figlio di Dio sceso sulla terra per
redimere gli uomini, anche se la stessa figura del Buddha è vista dalla
maggior parte del popolo con forti accenti divinizzatori. Il
Cristianesimo, poi, è una religione di massa, comprensibile, anche se in
termini diversi, naturalmente, a tutte le fasce di credenti, mentre il
Buddhismo distingue gli insegnamenti in essoterici (accessibili a
tutti, e provenienti dall’esterno della persona) ed esoterici
(accessibili solo ad un numero ristretto di persone, che si trovano un
gradino più in alto rispetto agli altri, perché hanno saputo far frutto di
ciò che già si trovava all’interno del loro animo). Molto
importante, infine, è l’assenza, nella tradizione buddhista, di un leader
spirituale “forte”, che stabilisca regole e leggi dottrinali.
I primi
scambi culturali tra Occidente e Buddhismo avvennero al tempo di
Alessandro Magno, che si spinse col suo esercito fino alla valle del fiume
Indo, per motivi economici. Non fu, tuttavia, particolarmente forte il
legame che si creò tra cultura greca e buddhista, a differenza di quanto
accadde con altre forme di spiritualità. La ragione è probabilmente da
ricercare nei fortissimi contrasti tra religiosità ellenica e panteismo
buddhista, tra ricerca della verità e sfida all’ignoto occidentale (
perfettamente raffigurate nel personaggio di Ulisse) e calma meditativa
orientale. Neppure i Romani fecero tanto per produrre un incontro di
carattere filosofico: pochi furono i pensatori che ripresero temi e
riflessioni orientali, il più importante dei quali fu certamente l’ex –
soldato Plotino. Occidentali e orientali, tuttavia, erano pur sempre a
conoscenza della loro reciproca esistenza, e ciò è testimoniato anche da
un libro dell’VIII secolo d.C., Vita dei Santi Barlaam e Josafat,
in cui Josafat appare molto simile a Siddhatta Gautama.
Il
Cristianesimo, in seguito, si dimostrò ben più aperto a contatti, anche se
le motivazioni principali che spinsero i primi europei in Oriente avevano
ben poco a che fare con la religione: c’era, infatti, la necessità di
percorrere la Via della Seta per cominciare commerci con la Cina e
liberare buona parte del vicino Oriente dal “pericolo” dell’Islam. Il
primo viaggiatore ad avventurarsi in questi territori fu il veneziano
Marco Polo. Quest’ultimo si avvicinò molto, in fatto di conoscenza, al
Buddhismo: ne apprese l’esistenza dal Kubilai Khan (che venerava, oltre
Gesù, Maometto e Mose, il Buddha), per poi mettersi alla ricerca del
“dente di Buddha”, un’importante reliquia, parlare con numerosi bonzi
(i monaci che rifuggono, a sua detta, il peccato) e considerare infine il
fondatore della religione, se fosse stato cristiano, un “gran santo appo
Dio”.
La tolleranza
e il rispetto manifestati da Marco Polo, però, non si ritrovarono spesso
nei tanti monaci cristiani che si insediarono in Asia nel XVI secolo.
Molti di loro ritenevano il Buddhismo una religione “abominevole e
scellerata” (Padre Jean Crasset), e consideravano i monaci buddhisti “una
setta di atei”, anche se ne riconoscevano i grandi meriti sul piano
morale, ammirandone la virtù e la castità. Ciò che univa Buddhismo e
Cristianesimo era un insieme di principi fondamentali comuni (anche se
talvolta si diceva che il Buddhismo li avesse degenerati), ciò che li
divideva era un fraintendimento sul concetto di vuoto. I buddhisti,
infatti, che ritenevano il nulla come una sorta di pace profonda della
mente e dei sensi, furono aspramente criticati dai religiosi che, non
comprendendo bene l’idea di vacuità, li additarono come seguaci di uno
sfrenato nichilismo, di un modo di pensare e di agire che eliminasse del
tutto la presenza di basi stabili e solide, per poi affermare che nulla (nihil)
esiste di per sé o, comunque, ha importanza.
Fu con l’età
moderna che gli intellettuali e, successivamente, il popolo d’Europa
poterono avvalersi delle prime traduzioni dei testi del Canone Buddhista,
senza più dover fare affidamento ai racconti, molto spesso caricaturali,
dei missionari asiatici. Il francese Du Halde, tuttavia, che fu poi
ripreso da Voltaire come fonte di preziose informazioni sull’Oriente,
definiva il Buddhismo come un “ammasso mostruoso di superstizioni, magia,
idolatrie e ateismo”. E’ naturale, comunque, aspettarsi un atteggiamento
del genere da parte di molti illuministi, che tendevano a svilire la
religione in generale, da qualcuno posto essa provenisse. I primi studi
scientifici sul Buddhismo furono avviati in età romantica: grande,
infatti, fu l’interesse di filosofi come Hegel, Schopenhauer, e diversi
altri, per il Dhamma e tutto ciò che vi era collegato. Sebbene Hegel
condannasse ancora la “superstizione della trasmigrazione delle anime”, si
fecero numerosi passi in avanti con la ridefinizione del concetto di
nibbana, che l’inglese Colebrooke riteneva “affrancamento del mondo, calma
profonda, suprema felicità”.
Schopenhauer,
ponendosi in atteggiamento fortemente pessimistico nel corso della sua
ricerca filosofica, trovò numerosi validi apporti dalla dottrina di Buddha:
l’esistenza come continua tensione verso il dolore, la fugacità del
piacere e della felicità, l’annullamento della brama come via per
liberarsi dalla sofferenza.
Un altro
importante contributo alla diffusione del Buddhismo in Occidente fu dato
dalla Theosophic Society, fondata a metà Ottocento dal colonnello
americano Henry Olcott e dalla sensitiva russa Elena Blavatsky. La
teosofia (questo il nome della dottrina che diffusero) cercava di riunire
tutte le religioni e le filosofie nate sulla Terra riconoscendo in ognuna
un frammento di verità, e ammettendo l’esistenza di una “filosofia
occulta” comune a tutte. Del Buddhismo si apprezzò particolarmente il
carattere esoterico dell’insegnamento, la razionalità utilizzata come
metodo di conoscenza e , paradossalmente, di fede, il forte pragmatismo
(che ben si sposava al progresso scientifico – tecnologico del tempo) e la
rivalutazione dell’analisi interiore dell’individuo che, con Jung, darà
una grande spinta allo sviluppo della nascente psicologia. Olcott tentò
addirittura, con un clamoroso insuccesso, di riunire il Grande e il
Piccolo Veicolo, tanto grande era la reputazione che aveva acquisito. E’
logico, però, che la ferita provocata da decine di secoli di divisioni
dottrinali e rituali non poteva essere sanata nel giro di qualche anno, e
ancora di meno da un occidentale!
Sebbene, nel
XX secolo, il nazismo condannò apertamente la pratica religiosa buddhista,
è ben noto che Hitler si interessò moltissimo agli aspetti magico –
misterici del culto orientale. Alcuni dati precisi sostengono che il
dittatore tedesco spese, in ricerche nel Tibet, l’equivalente di quanto
gli americani pagarono per la costruzione della prima bomba atomica!
In tempi più recenti, è possibile osservare che la prima forma di Buddhismo che si diffuse in Occidente fu quella Zen. Lo Zen trovò largo seguito, prima in Europa e poi, ancora di più, negli Stati Uniti, tra gli intellettuali e gli studiosi. Molto forte fu il dibattito che si innescò intorno ai numerosi punti d’incontro con la psicologia junghiana, e diversi insegnanti universitari facevano uso di concetti buddhisti per spiegare termini di psicologia. In un secondo momento, negli anni Sessanta – Settanta, il vero fruitore occidentale del Buddhismo divenne la Beat Generation, che si opponeva all’autoritarismo, alla guerra e alle numerose costrizioni moralistiche dell’epoca.
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