PRIMA PARTE
L'ambasciatore del re
Questo io ho udito:
Si era tra la fine della
fioritura ed il principio della calura [nel maggio del 483 avanti
Cristo N.d.T.] e il Sublime dimorava presso Râjagaha, sulla montagna
del Picco del Vulture. Ora, proprio allora, il re di Mâgadha,
Ajâtasattu Vedehiputta, voleva far guerra ai Vajjî e andava dicendo:
«Io abbatterò questi Vajjî, così riottosi, così violenti, li
sterminerò, li farò sparire dalla faccia della terra!». E il re
Ajâtasattu ordinò al brahmano Vassakâra, primo ministro di Mâgadha:
«Va' tu, brahmano, dal Sublime, riveriscilo da parte mia, informati
sulla sua salvezza, auguragli a nome mio salvezza, forza, freschezza e
benessere, riferiscigli la mia intenzione di attaccare e debellare i
Vajjî, e riportami quel che il Sublime ti dirà, perché i Compiuti non
parlano invano».
«Sì, signore!»: rispose il
primo ministro Vassakâra al re Ajâtasattu; fece quindi aggiogare
bellissimi carri, salì in uno di essi, e, seguito dagli altri, sortì
da Râjagaha, dirigendosi verso la montagna del Picco del Vulture. Dopo
aver proceduto con essi fin dove la via era carrabile, smontò dal
carro e si diresse a piedi là dove dimorava il Sublime. Là giunto,
salutò riverentemente il Sublime, scambiò con lui cortesi, notevoli
parole e, dopo esserglisi seduto accanto, riferì al Sublime punto per
punto l'ambasciata e l'incarico avuti dal re Ajâtasattu.
Ora, in quel mentre, il
venerabile Ânanda stava alle spalle del Sublime, facendogli fresco col
ventaglio. E il Sublime si volse al venerabile Ânanda, interrogandolo:
«Hai tu forse sentito, Ânanda, se i Vajjî si riuniscono spesso, hanno
frequenti adunanze; se si adunano concordi, si sciolgono concordi,
adempiono concordi i loro affari; se essi non promulgano nuove leggi,
non aboliscono le antiche leggi e si mantengono fedeli alla loro
antica tradizionale costituzione; se essi stimano, pregiano,
rispettano ed onorano i loro anziani e ne accettano il consiglio; se
essi non fanno violenza alle loro donne; se rispettano, onorano e
adorano gli altari, i templi e le tombe delle loro terre; se essi
accolgono ospitalmente, mantengono e proteggono i santi pellegrini,
sia indigeni che estranei?».
Assentì il venerabile Ânanda,
confermando quel che il Sublime chiedeva sul retto modo di vivere dei
Vajjî. Allora il Sublime si volse a Vassakâra, il primo ministro di
Mâgadha: «Una volta, o brahmano, mentre dimoravo presso Vesâli, ho
esposto ai Vajjî queste sette regole imperiture. E fino a quando, o
brahmano, queste sette regole imperiture persistono presso i Vajjî, e
i Vajjî ad esse si attengono, c'è da aspettarsi un prosperare dei
Vajjî, non il loro perire».
Dopo queste parole Vassakâra, primo
ministro di Mâgadha, disse al Sublime così:
«Anche se i Vajjî fossero
dotati di una soltanto di queste sette regole imperiture, ci sarebbe
da aspettarsi un loro prosperare, non un perire: tanto più se dotati
di tutt'e sette. No, signore Gôtama, i Vajjî non potranno esser vinti
in guerra dal re Ajâtasattu, altrimenti che col tradimento e con la
discordia. Orsù dunque, signore Gôtama, ora ce ne andiamo: molti
doveri ci aspettano, molti affari».
«Come ora, o brahmano, bene ti
pare».
Sette regole imperiture
Quindi ora Vassakâra, primo
ministro di Mâgadha, rallegrato e appagato dalla parola del Sublime,
s'alzò dal suo posto e se ne andò. E appena se ne fu andato, il
Sublime si rivolse al venerabile Ânanda: «Va' tu, Ânanda, e quanti
monaci dimorano presso Râjagaha, falli tutti raccogliere nella sala
delle adunanze». Il venerabile Ânanda mise in atto puntualmente la
disposizione e quindi si recò dal Sublime, annunziandogli: «Riunita, o
signore, è la comunità dei monaci: come ora al Sublime bene pare».
Quindi ora il Sublime si recò alla sala delle riunioni, prese posto
sull'offerto sedile e si rivolse ai monaci:
«Sette regole imperiture, o
monaci, voglio esporvi: ascoltate e fate bene attenzione a quel che vi
dirò. Fin quando i monaci si riuniranno spesso, avranno frequenti
adunanze; fin quando si aduneranno concordi, si scioglieranno
concordi, adempiranno concordi i loro affari; fin quando non
prescriveranno nuove regole, non aboliranno le antiche regole e si
manterranno fedeli alle loro antiche regole tradizionali; fin quando
stimeranno, pregeranno, rispetteranno ed onoreranno i monaci anziani,
esperti, provetti, i maestri, i padri, le guide dell'Ordine, e ne
ascolteranno i consigli; fin quando non abboccheranno avidi alla sete
dell'esistenza; fin quando risiederanno volentieri in selve solitarie;
fin quando cureranno la consapevolezza, sì da attrarre i santi
pellegrini, vicini e lontani: fin tanto c'è da aspettarsi un
prosperare dei monaci, non un deperire.
«Ed altre sette regole
imperiture, o monaci, voglio ancora esporvi. Fin quando i monaci non
si compiaceranno, non si occuperanno e non si affaccenderanno in
affari; fin quando non si compiaceranno, non si occuperanno e non si
affaccenderanno in chiacchiere; fin quando non si compiaceranno, non
si adageranno e non si prolungheranno nel sonno; fin quando non si
compiaceranno, non si rallegreranno e non si divertiranno nella
società; fin quando non coveranno, non nutriranno e non coltiveranno
cattivi desideri; fin quando non avranno cattivi amici, cattivi
compagni, cattivi intimi; fin quando non saranno soddisfatti dal
conseguimento di un piccolo risultato: fin tanto c'è da aspettarsi un
prosperare dei monaci, non un deperire.
«Ed altre sette regole
imperiture, o monaci, voglio ancora esporvi. Fin quando i monaci
saranno fiduciosi, prudenti, scrupolosi, dediti a imparare, energici,
presenti e consapevoli: fin tanto c'è da aspettarsi un prosperare dei
monaci, non un deperire.
«Ed altre sette regole
imperiture, o monaci, voglio ancora mostrarvi. Fin quando i monaci
coltiveranno il risveglio della consapevolezza, il risveglio
dell'esame degli stati mentali, il risveglio dell'energia, il
risveglio della beatitudine, il risveglio della calma, il risveglio
della concentrazione, il risveglio dell'equanimità: fin tanto c'è da
aspettarsi un prosperare dei monaci, non un deperire.
«Ed altre sette regole
imperiture, o monaci, voglio ancora esporvi. Fin quando i monaci
saranno consapevoli dell'impermanenza della coscienza,
dell'impersonalità della coscienza, dell'impurità della coscienza,
della miseria della coscienza, del lasciar andare la coscienza, del
rivolgimento della coscienza, del dissolvimento della coscienza: fin
tanto c'è da aspettarsi un prosperare dei monaci, non un deperire.
«Ed altre regole imperiture, o
monaci, voglio ancora esporvi. Fin quando i monaci si assoceranno ai
fratelli dell'Ordine con opere, parole e pensieri amorevoli, sia
palesi che occulti; fin quando divideranno equamente con essi il cibo
mendicato; fin quando conserveranno insieme intatti i principii di
rettitudine liberamente scelti, intelligentemente provati, atti al
raccoglimento; fin quando serberanno insieme quella nobile, santa
conoscenza, che apporta al conoscitore la cessazione di ogni dolore:
fin tanto c'è da aspettarsi un prosperare dei monaci, non un
deperire».
Dopo questo discorso il
Sublime, dimorando ancora nella montagna del Picco del Vulture,
rivolse ai monaci questa istruttiva allocuzione:
«Ecco la rettitudine, ecco la
concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla
rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita
alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la
concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli
influssi: ossia dall'influsso della libidine, dall'influsso
dell'essere, dall'influsso dell'opinione, dall'influsso
dell'ignoranza».
Il ruggito di Sâriputta
Ora dunque il Sublime, dopo
essersi trattenuto ancora un certo tempo a Râjagaha, si recò, seguito
da Ânanda e da una comitiva di monaci, ad Ambalatthika, ed ivi,
dimorando nel padiglione reale, ripetè ai monaci l'allocuzione:
«Ecco la rettitudine, ecco la
concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla
rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita
alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la
concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli
influssi: ossia dall'influsso della libidine, dall'influsso
dell'essere, dall'influsso dell'opinione, dall'influsso
dell'ignoranza».
Quindi ora il Sublime, seguito
da Ânanda e dalla comitiva dei monaci, si partì da Ambalatthika e si
recò a Nâlanda, prendendo dimora nel bosco di manghi là presso. Ed
ecco che il venerabile Sâriputta venne là, dove stava il Sublime,
salutò riverentemente il Sublime e gli si sedette accanto. Accanto
seduto, il venerabile Sâriputta disse ora al Sublime così:
«Io sono sicuro, o signore,
che non vi fu, non vi sarà e non v'è ora altro asceta o sacerdote, che
sia più del Sublime ricco d'illuminata saggezza».
«Reboante, Sâriputta, è questa
sentenza, da te pronunziata, semplicemente affermata e fatta risuonare
come il ruggito di un leone: “Non vi fu, non vi sarà e non v'è ora
altro asceta o sacerdote più ricco del Sublime in illuminata
sapienza”. Come dunque, Sâriputta: quelli, che furono nel passato
santi, perfetti Svegliati; quelli, che saranno nel futuro santi,
perfetti Svegliati; ed io, che sono ora santo, perfetto Svegliato;
tutti tu li hai nel tuo spirito compresi e conosciuti a fondo: “Così
hanno vissuto, vivono e vivranno tali Sublimi, così hanno insegnato,
insegneranno ed insegnano, così hanno saputo, sapranno e sanno, così
si sono redenti, si redimeranno e si redimono, così e così”?».
«Questo certo no, o signore».
«Perché mai dunque, Sâriputta,
tu ora proprio qui hai pronunziato quella reboante sentenza,
semplicemente affermandola e facendola risuonare come il ruggito di un
leone?».
«Certo, o signore, io non ho
compreso e conosciuto a fondo tutti i santi, perfetti Svegliati del
passato, del futuro e del presente: ma ho conosciuto il corso del
Dhamma. Mi servo di un paragone. Così come quasi, o signore, se ai
confini del regno vi fosse un castello con solido vallo, solide mura
ed una sola porta; e il guardiano della porta, facendo la ronda,
osservasse che non vi fosse nelle mura la più piccola fessura o
frattura, per la quale potesse anche un gatto passare, e concludesse:
“Chiunque voglia uscire o entrare in questo castello deve passare solo
per questa porta”; or così anche appunto, o signore, io ho
conseguentemente conosciuto: tutti i santi, perfetti Svegliati del
passato, del futuro e del presente, si sono sciolti dai cinque
impedimenti, si sono detersi delle scorie dell'animo, hanno basato la
mente sui quattro fondamenti della presenza mentale, hanno realizzato
i sette fattori di risveglio e si sono svegliati nell'incomparabile
perfetto risveglio».
Dopo di che il Sublime rivolse
di nuovo ai monaci l'allocuzione:
«Ecco la rettitudine, ecco la
concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla
rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita
alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la
concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli
influssi: ossia dall'influsso della libidine, dall'influsso
dell'essere, dall'influsso dell'opinione, dall'influsso
dell'ignoranza».
Discorso ai laici di Pâtali e
profezia sulla loro città
Ora il Sublime, dopo essere
stato alquanto a Nâlanda, si avviò, seguito da Ânanda e dalla comitiva
dei monaci, verso il villaggio di Pâtali. Ed i seguaci di Pâtali
sentirono che il Sublime era giunto presso il loro villaggio, si
recarono là dove egli dimorava, lo salutarono riverentemente e lo
pregarono di onorare della sua visita la casa comunale. Ottenutone
l'assenso, si recarono alla casa, ne coprirono di stuoie il pavimento,
apparecchiarono le sedie, il vaso con l'acqua, per lavare i piedi, e
la lampada, e quindi annunziarono al Sublime che tutto era pronto.
Ed il Sublime verso sera si
approntò, prese mantello e scodella e si recò coi monaci alla casa
comunale. Là giunto, si lavò i piedi, entrò nella sala e si sedette
presso il pilastro di mezzo, rivolto a Oriente; ed i monaci, lavatisi
i piedi, ed entrati nella sala, si sedettero addossati alla parete
occidentale, rivolti a Oriente, alle spalle del Sublime; ed i seguaci
di Pâtali, lavatisi i piedi ed entrati nella sala, si sedettero
addossati alla parete orientale, rivolti a Occidente, di fronte al
Sublime. E il Sublime parlò ai seguaci del villaggio di Pâtali:
«Cinque svantaggi, o padri di
famiglia, toccano al negligente, che devia dalla rettitudine: egli va
incontro alla perdita degli averi; acquista cattiva fama; appare con
volto preoccupato e con aria depressa nelle riunioni dei nobili, dei
sacerdoti, dei laici e degli asceti; muore con lo spirito turbato; e
con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, scende giù, su cattivi
sentieri, in mondo infernale. Cinque vantaggi invece toccano ad un
virtuoso, che segue la rettitudine: va incontro all'aumento degli
averi; acquista buon nome; appare con volto sereno e con aria
disinvolta nelle riunioni dei nobili, dei sacerdoti, dei laici e degli
asceti; muore con lo spirito non turbato; e con la dissoluzione del
corpo, dopo la morte, sale su, su buoni sentieri, in mondo celeste».
Dopo queste parole il Sublime
continuò a trattenere, rallegrare, sollevare e rasserenare i seguaci
di Pâtali con istruttivo colloquio, e quindi disse: «È inoltrata la
notte, o padri di famiglia: come ora bene vi pare». E i seguaci di
Pâtali allora si alzarono, salutarono riverentemente il Sublime,
girarono verso destra e si allontanarono. Dopo che essi si furono
allontanati, il Sublime si ritirò in una cella vuota.
Ora in quel tempo Sunîdha e
Vassakâra, i ministri di Mâgadha, facevano costruire fortificazioni
presso Pâtali, contro i Vajjî: e grandi erano ivi la moltitudine dei
lavoratori e il fervore delle opere. E il Sublime, all'alba, prima del
sorgere del sole, uscì dalla cella e disse ad Ânanda:
«Per quanto, Ânanda, si stende
questa nobile sede e s'incrociano queste grandi strade commerciali,
sorgerà una grande capitale, Pâtaliputta, alla confluenza dei fiumi.
Ma anche su Pâtaliputta incombono tre pericoli: il fuoco, l'acqua, la
guerra».
E Sunîdha e Vassakâra, i
ministri di Mâgadha, si recarono ora dal Sublime, lo salutarono
riverentemente, scambiarono con lui amichevoli parole e lo pregarono
di accettare coi monaci un invito a pranzo presso di loro. Il Sublime
assentì col silenzio. E Sunîdha e Vassakâra, lieti dell'assenso del
Sublime, ritornarono alla loro dimora, fecero apparecchiare in una
sala scelti cibi, solidi e liquidi, e mandarono un messo al Sublime,
per annunziargli che tutto era pronto. Ed il Sublime, prima di
mezzogiorno, prese mantello e scodella e, seguito dai monaci, si recò
alla casa di Sunîdha e Vassakâra, dove prese posto sull'offerto
sedile, mentre i due ministri servivano di propria mano il Sublime ed
i discepoli. E quando questi ebbero finito di mangiare, Sunîdha e
Vassakâra
presero due sedie più basse e
si sedettero accanto al Sublime. Il Sublime recitò loro questi versi:
«Il saggio, dovunque abbia preso
dimora,
là accoglie chi è santo e virtuoso;
e quel che in essi di divino egli scorge, quello in essi riverisce ed
onora,
e pertanto li ama come madre i figlioli; e quelli, sì amati, saranno
per sempre salvati».
E quando il Sublime con questi
versi ebbe confortato e rallegrato Sunîdha e Vassakâra, i ministri di
Mâgadha, si alzò dal suo posto e se n'andò. Ma Sunîdha e Vassakâra
seguirono dappresso il Sublime, pensando: «Per quale porta oggi
l'asceta Gôtama uscirà dalla città, quella si chiamerà porta di Gôtama;
per quale traghetto oggi l'asceta Gôtama traverserà il fiume Gange,
quello si
chiamerà traghetto di Gôtama».
E la porta, per la quale il Sublime sortì, si chiamò porta di Gôtama.
Quindi Gôtama giunse al fiume Gange, che era allora in piena, sì che
l'acqua sfiorava le sponde, sorbibile dai corvi. Ed il Sublime vide le
genti, di cui alcune montavano in barca, altre su scafo ed altre su
zattera, per passare all'altra sponda, ed a quella vista, traendo un
profondo sospiro, disse questo detto:
«Coloro che devono passare fiumi e
mari,
ponti e barche e navigli si fanno:
solo, sul filo dell'onda,
il saggio se ne va all'altra sponda».
SECONDA PARTE
Le quattro nobili verità
Dopo aver dunque passato il
Gange, il Sublime si diresse coi monaci al villaggio Koti, dove
dimorando egli tenne loro questo discorso:
«Siccome finora, o monaci, non
si erano riconosciute e comprese le quattro nobili verità del dolore,
dell'origine del dolore, della fine del dolore e della via che porta
alla fine del dolore: perciò appunto, o monaci, è stato finora girato
e percorso, da me come da voi, questo lungo cammino. Ora però sono
state riconosciute e comprese le quattro nobili verità, è stata recisa
la radice ell'esistenza, esaurita la sete di esistenza non c'è più
ritorno all'esistenza».
Questo disse il Sublime.
Quando il Tathagata ebbe detto ciò, disse ancora il Maestro:
«Non riconoscendo conformi a
realtà le quattro nobili verità, si percorre il lungo cammino,
esistenza per esistenza. Ma, riconosciutele, tagliata la vena
dell'esistenza recisa la radice del dolore, non c'è più ritorno
all'esistenza».
E, dimorando ancora a Koti, il
Sublime rivolse di nuovo ai monaci l'allocuzione:
«Ecco la rettitudine, ecco la
concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione, unita alla
rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza, unita
alla concentrazione, è di grande frutto, grande profitto; la
concentrazione mentale, unita alla saggezza, è libera da tutti gli
influssi:
ossia dall'influsso della
libidine, dall'influsso dell'essere, dall'influsso dell'opinione,
dall'influsso dell'ignoranza».
«Quale sorte dopo la morte?»
Dopo essersi fermato alquanto
a Koti, il Sublime si diresse con i monaci a Nâdika, dove prese dimora
nella casa di mattoni. Là ora Ânanda annunziò al Sublime, che diversi
monaci e monache e seguaci dei due sessi erano morti a Nâdika, e gli
chiese che cosa fosse avvenuto di essi dopo la loro morte. E il
Sublime, dopo aver parlato delle loro diverse sorti dopo morte,
corrispondenti alle qualità spirituali da essi sviluppate durante le
loro vite, aggiunse:
«Nessuna meraviglia, Ânanda,
che un essere umano, fatto il suo tempo, muoia. Ma, se per ogni morto
voi vi presentaste a chiederne l'esito al Sublime, ciò sarebbe, Ânanda,
un fastidio per il Sublime. Vogliate perciò mirare nello specchio del
Dhamma, perché, scorgendo in esso quali sono le qualità buone e le
cattive di ciascun essere, possiate comprenderne l'esito dopo la
morte».
E quindi ripetè ai monaci
l'allocuzione: «Ecco la rettitudine, ecco la concentrazione, ecco la
saggezza. La concentrazione unita alla rettitudine è di grande frutto,
grande profitto; la saggezza unita alla concentrazione è di grande
frutto, grande profitto; la concentrazione mentale, unita alla
saggezza è libera da tutti gli influssi: ossia dall'influsso della
libidine, dall'influsso dell'essere, dall'influsso dell'opinione,
dall'influsso dell'ignoranza».
«Il monaco sia attento e
consapevole»
Dopo la sosta presso Nâdika,
il Sublime, seguito da Ânanda e dalla comitiva dei monaci, si diresse
alla città di Vesâli presso la quale prese dimora nel parco di manghi
di Ambapâli. Là il Sublime disse ai monaci così:
«Attento sia il monaco e
consapevole: questo ritenete, o monaci, come nostro insegnamento. E
come, o monaci, il monaco è attento? Ecco, o monaci, il monaco, dopo
aver rigettato brame e cure mondane, vigila attento presso il corpo
sul corpo, presso le sensazioni sulle sensazioni, presso la mente
sulla mente, presso gli oggetti mentali sugli oggetti mentali: così il
monaco è attento. E come il monaco è consapevole? Egli resta
consapevole nell'andare e nel venire, nel guardare e nel non guardare,
nell'inchinarsi e nel sollevarsi, nel portare l'abito e la scodella
dell'elemosina, nel mangiare e nel bere, nel masticare e nel gustare,
nel vuotarsi di feci e di urina, nel camminare e nello stare e nel
sedere, nell'addormentarsi e nel destarsi, nel parlare e nel tacere:
così il monaco è consapevole. Attento sia il monaco e consapevole:
questo ritenete, o monaci, come nostro insegnamento».
La cortigiana Ambapâli
Intanto Ambapâli la
cortigiana, avendo sentito dire che il Sublime era giunto a Vesâli e
s'era fermato nel suo parco di manghi, fece subito aggiogare
bellissimi carri, montò sopra uno di essi e, seguita dagli altri, si
diresse verso il suo parco, procedendo così fin dove la via
permetteva; poi smontò e si diresse a piedi là, dove dimorava il
Sublime. Là giunta, salutò riverentemente il Sublime e si sedette da
parte. Ed Ambapâli la cortigiana, dopo essere stata dal Sublime
confortata, rallegrata, sollevata e rasserenata con istruttivo
colloquio, rivolse al Sublime la preghiera, di volere l'indomani
insieme con i monaci mangiare presso di lei. Il Sublime assentì col
silenzio. E quando Ambapâli ebbe ottenuto l'assenso del Sublime, si
alzò, salutò riverentemente il Sublime e se ne andò.
Intanto però anche i principi
Licchavi di Vesâli avevano appreso dell'arrivo del Sublime ed erano
usciti con grande pompa dalla città, con i vestiti, gli ornamenti e
gli equipaggi, nei colori speciali delle loro famiglie: quali in
azzurro, quali in giallo, quali in rosso, quali in bianco: e mentre
così correvano con i loro carri verso il bosco di manghi, vennero a
sfiorare, asse contro asse, ruota contro ruota, giogo contro giogo, i
carri di ritorno di Ambapâli, e le gridarono:
«Ehi, Ambapâli, donde ne vieni
così lieta e veloce?».
«Vengo, o nobili giovani, dal
Sublime, che ha accettato, di venire domani a pranzo da me con i suoi
monaci».
«Dà a noi, Ambapâli, l'onore
di tale pranzo, per centomila denari».
«Se anche, nobili giovani, mi
deste tutta Vesâli con le sue entrate, non vi cederei un pranzo così
grandioso».
Allora quei principi Licchavi
fecero schioccare le dita, esclamando: «Ce l'ha fatta, veramente, la
fanciulla dei manghi, ci ha vinto, or vedete, la signora dei manghi!».
Continuarono quindi la loro
corsa verso il bosco di manghi, si avanzarono con tutta la loro
magnificenza verso il Sublime, lo salutarono riverentemente, si
sedettero accanto a lui, furono anch'essi da lui confortati e
sollevati con istruttivo colloquio e gli chiesero l'onore di accettare
l'indomani il pranzo da loro. Ma il Sublime rispose, che aveva già
accettato l'invito di Ambapâli.
Allora i principi Licchavi,
rallegrati ed appagati dal discorso del Sublime, si alzarono dai loro
posti, salutarono riverentemente il Sublime, gli girarono sulla destra
intorno e si allontanarono.
Intanto Ambapâli la cortigiana
il mattino seguente fece apparecchiare nel suo giardino scelti cibi,
solidi e liquidi, e mandò un messo al Sublime, con l'annunzio che
tutto era pronto. E il Sublime, approntatosi per tempo, prese mantello
e scodella e si recò con i monaci là, dove Ambapâli aveva apprestato
il ricevimento. Là giunto il Sublime si sedette al posto assegnatogli,
ed Ambapâli servì di propria mano lui ed i monaci. Dopo che il Sublime
ebbe mangiato, Ambapâli si sedette accanto in un posto più basso e
disse al Sublime così: «Questo giardino, o signore, io lo dono allo
Svegliato e al suo Ordine di mendicanti».
Il Sublime accettò la
donazione del giardino. Quindi, dopo avere confortato, rallegrato,
sollevato e rasserenato Ambapâli la cortigiana con istruttivo
colloquio, il Sublime si alzò dal suo posto e se n'andò.
Continuò intanto il Sublime a
trattenersi nei dintorni di Vesâli, tenendo ai monaci istruttivi
discorsi, prima nel parco di Ambapâli e poi nel casale di Beluva. Qui
ora, avvicinandosi la stagione delle piogge, il Sublime disse ai
monaci: «Andate, o monaci, e cercate possibilmente nei dintorni di
Vesâli, per la stagione delle piogge, posti amichevoli, gradevoli,
piacevoli: io, però, passerò qui, nel casale di Beluva, la stagione
delle piogge».
«Siate rifugio a voi stessi»
Ora durante la stagione delle
piogge il Sublime fu colpito da grave malattia, con forti, mortali
dolori che egli sopportò con pazienza e con chiara coscienza e che
superò e vinse con forza di volontà pensando che non doveva morire,
prima di aver visto ancora una volta i discepoli più vicini e ripetuto
loro le sue istruzioni. Quindi ora, quando il male si fu dileguato, il
Sublime uscì dall'eremo e si sedette dietro il muro occidentale,
all'ombra. E il venerabile Ânanda s'accostò ora al Sublime, lo salutò
riverentemente, gli si sedette accanto e disse al Sublime così:
«Ho visto, o signore, che il
Sublime sta meglio, che il Sublime è guarito. Durante la malattia del
Sublime, o signore, io mi sentivo venir meno e non ero più in grado di
pensare. Ma mi confortava il pensiero, che il Sublime non si sarebbe
spento prima di aver detto qualche cosa riguardo all'Ordine dei
mendicanti». «Ma che chiede, Ânanda, l'Ordine ancora da me? Esposto è
stato da me il Dhamma, senza farne uno essoterico ed uno esoterico.
Non c'è nell'insegnamento del Sublime nulla che sia rimasto nel “pugno
chiuso del maestro”. Chi pensasse, di dover ancora guidare l'Ordine o
che l'Ordine resti ancora a lui affidato, quegli dovrebbe dire ancora
qualche cosa all'Ordine. Ma
il Sublime non ha di tali
pensieri: che dovrebbe dunque il Sublime ancora dire all'Ordine dei
mendicanti? Io ora, Ânanda, sono divenuto vecchio, anziano, ho fatto
il mio tempo, ho raggiunto grave età, sono nell'ottantesimo anno
d'età. Così come quasi, Ânanda, un vecchio carro si muove a fatica, or
così anche appunto a fatica si muove il corpo del Sublime. Solo quando
il Sublime, avendo tolto dalla mente tutte le rappresentazioni,
essendosi liberato da ciascuna sensazione, ha raggiunto il
raccoglimento della mente senza rappresentazioni: solo allora, Ânanda,
il corpo del Sublime si sente bene.
«Perciò, Ânanda, siate luce a
voi stessi, siate rifugio a voi stessi, senz'altro rifugio: il Dhamma
sia luce, il Dhamma sia rifugio, senza altro rifugio. E come, Ânanda,
il monaco è luce a sé stesso, rifugio a sé stesso, senza altro
rifugio: il Dhamma gli è luce, il Dhamma rifugio, senza altro rifugio?
«Ecco, Ânanda, il monaco,
avendo superato brame e cure mondane, vigila instancabile, con chiara
mente, cosciente, presso il corpo sul corpo, presso le sensazioni
sulle sensazioni, presso la mente sulla mente, presso gli oggetti
mentali sugli oggetti mentali. In tal modo, Ânanda, il monaco è luce a
se stesso, rifugio a se stesso, senza altro rifugio: il Dhamma gli è
luce, il Dhamma rifugio, senza altro rifugio. Quelli che ora, Ânanda,
dopo la mia dipartita, saranno luce a se stessi, rifugio a se stessi,
senza altro rifugio; ai quali il Dhamma sarà luce, il Dhamma rifugio,
senza altro rifugio: costoro, Ânanda, con tale visione, così amando
l'esercizio, saranno monaci per me».
TERZA PARTE
L'ultima tentazione
Qualche giorno dopo questo
dialogo, il Sublime, una mattina, pronto per tempo, prese mantello e
scodella e si recò a Vesâli per l'elemosina. Dopo la questua mangiò il
cibo mendicato e quindi, insieme con Ânanda, si recò presso il tumulo
di Câpâla, per passarvi il resto del giorno. Là stando seduto, egli
fece ammirare ad Ânanda la bellezza di Vesâlì, con i suoi incantevoli
dintorni, tutti sparsi di giardini, di monumenti e di parchi.
Nella contemplazione di tanta
bellezza sorse in lui il pensiero che forse valeva la pena, di
continuare a vivere e continuare la sua opera, per il bene di molti,
per la salvezza di molti, per utile e compassione del mondo. Ma ciò
gli apparve subito come un'attrazione del mondo, come una tentazione
di Mâra il maligno, lo spirito del mondo, come una seduzione della
natura, ed egli respinse quel pensiero della durata, decidendo che non
più tardi di tre mesi si sarebbe estinto. Con l'abbandono del pensiero
della durata, un fremito passò per tutto l'universo, ed il Sublime
fece allora intendere questo detto:
«Il saggio s'è staccato da
ogni esistenza, da ogni elemento dell'esistenza: in sé
beato, raccolto, egli ha infranto come cotta di maglia la propria
esistenza».
Allora il venerabile Ânanda
espresse al Sublime l'augurio e il voto che potesse ancora vivere a
lungo, per il bene e la salvezza degli uomini, per utile e compassione
del mondo. Ma il Sublime rispose:
«Non è stato già, Ânanda,
prima detto proprio da me, che tutto ciò che è caro ed amato, si muta,
perisce, svanisce? Come dunque si può ottenere, che quel che è nato,
divenuto, composto, soggetto alla dissoluzione, non si dissolva? Ciò
non è concepibile. Ora il Sublime ha abbandonato il pensiero della
durata e sa che tra non molto, non più tardi di tre mesi, si
estinguerà per sempre: e non può essere altrimenti. Orsù Ânanda,
andiamo nell' Eremo della Grande Selva».
Ora, stando nell' Eremo della
Grande Selva, il Sublime disse ad Ânanda di far raccogliere nella sala
delle riunioni i monaci, che si trovavano nei dintorni di Vesâli.
Quando i monaci si furono là raccolti, il Sublime si recò nella sala,
si sedette e disse loro così: «Quelle cose, o monaci, che vi sono
state da me esposte ed insegnate, voi dovrete serbarle, guardarle,
esercitarle e curarle, affinché la nobile vita duri e prosperi, per il
bene e la salvezza degli uomini, per utile e compassione del mondo.
Quali sono queste cose? Esse
sono: i quattro fondamenti della presenza mentale, i quattro sforzi,
le quattro vie del potere, le cinque facoltà spirituali, i cinque
poteri mentali, i sette fattori di risveglio, il nobile ottuplice
sentiero. Orsù dunque, o monaci, io vi esorto: periture son tutte le
cose, lottate instancabilmente. Tra non molto il Compiuto sarà
completamente estinto.
Così disse il Sublime. Quando
il Benvenuto ebbe detto ciò, disse ancora questo, il Maestro:
«Indefinibile e ignota è la vita dei
mortali,
torbida e breve e avvolta nel dolore.
Chiunque nasca perviene alla morte:
questa è la sorte di tutti i mortali.
Come i frutti maturi cadono a terra,
così i nati mortali cadono nella morte.
Come i vasi del vasaio, belli e brutti, crudi o cotti,
finiscono tutti per rompersi:
tale è pur la nostra vita,
se siam belli o siam brutti,
giovani e vecchi,
stolti e saggi,
ricchi e poveri,
tutti sono soggetti alla morte.
Compiuto è il mio tempo, tramonta la
mia vita: vi lascio e mi ritiro, prendendo rifugio in me stesso.
Siate, o monaci, instancabili,
consapevoli, virtuosi, raccolti nella retta intenzione, vigilate sulla
vostra mente.
Chi instancabile perdurerà in questo
insegnamento e disciplina, lasciando il turbine delle nascite, porrà
fine al dolore».
QUARTA PARTE
Ultime peregrinazioni
Dopo qualche giorno il
Sublime, levatosi di buon'ora, prese mantello e scodella e si recò a
Vesâli per l'elemosina. Quindi, uscito dalla città, dopo aver mangiato
il cibo avuto in elemosina, guardò Vesâli con lo sguardo dell'elefante
e disse ad Ânanda: «Questo, Ânanda, è l'ultimo sguardo del Compiuto su
Vesâli. Andiamo, Ânanda, al villaggio di Bhanda».
Quindi il Sublime, seguito da
Ânanda e dalla comitiva dei monaci, procedette verso il villaggio di
Bhanda, dove prese dimora. Là ora il Sublime disse di nuovo ai monaci:
«Dopo aver dunque passato il
Gange, il Sublime si diresse coi monaci al villaggio Koti, dove
dimorando egli tenne loro questo discorso:
«Siccome finora, o monaci, non
si erano riconosciute e comprese le quattro nobili verità del dolore,
dell'origine del dolore, della fine del dolore e della via che porta
alla fine del dolore: perciò appunto, o monaci, è stato finora girato
e percorso, da me come da voi, questo lungo cammino. Ora però sono
state riconosciute e comprese le quattro nobili verità, è stata recisa
la radice dell'esistenza, esaurita la sete di esistenza non c'è più
ritorno all'esistenza». Questo disse il Sublime. Quando il Benvenuto
ebbe detto ciò, disse ancora questo, il Maestro: «Rettitudine,
concentrazione, saggezza e liberazione: queste cose le ha Gôtama
comprese,ed avendole comprese le ha insegnate ai monaci: il Veggente,
il Maestro, che ha messo fine al dolore si estingue».
Quando ebbe detto ciò, il
Sublime ripetè ancora una volta ai monaci l'allocuzione:
«Ecco la rettitudine, ecco la
concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla
rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita
alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la
concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli
influssi:
ossia dall'influsso della
libidine, dall'influsso dell'essere, dall'influsso dell'opinione,
dall'influsso dell'ignoranza».
Ora il Sublime, dopo essersi
trattenuto alquanto nel villaggio di Bhanda, volle procedere ancora
verso settentrione e, passando per Hatthigâma [villaggio
dell'elefante, N.d.T], per Ambagâma [villaggio del mango, N.d.T] e per
Jambugâma [villaggio della melarosa, N.d.T], giunse alla città di
Bhoga, presso cui prese dimora, vicino al tumulo degli Anandidi. Là
ora il Sublime disse ai monaci: «Quattro grandi tracce voglio, o
monaci, mostrarvi: ascoltate e fate attenzione al mio discorso. Può
darsi, o monaci, che un monaco, od una comunità di monaci, con i suoi
superiori e anziani, conoscitori dell'insegnamento, guardiani
dell'insegnamento, guardiani della disciplina, guardiani della
tradizione, o anche un solo vecchio monaco di grande esperienza, di
grande conoscenza, dicano così: “Abbiamo personalmente sentito, che
questo è l'insegnamento, questa è la
disciplina, questa è la
lezione del Maestro”. Una tale dichiarazione, o monaci, non è da
approvare né da disapprovare; senza approvarla né disapprovarla,
bisogna notarsene le proposizioni e cercarne la conferma nei discorsi
del Maestro, la prova nel codice di disciplina dell'Ordine. Se tale
conferma e tale prova non si trovano, allora bisogna concluderne, che
quella non è la parola del Sublime, o che è stata mal compresa da quei
monaci. Se invece tale conferma e tale prova vi si trovano, allora
bisogna concluderne che quella è sicuramente la parola del Sublime e
che essa è stata ben compresa da quei monaci. Queste grandi tracce
vogliate voi, o monaci, ben conservare.
Quindi ora il Sublime,
trattenendosi ancora presso la città di Bhoga, al monumento degli
Anandidi, ripetè ancora una volta ai monaci l'allocuzione:
«Ecco la rettitudine, ecco la
concentrazione, ecco la saggezza. La concentrazione unita alla
rettitudine è di grande frutto, grande profitto; la saggezza unita
alla concentrazione è di grande frutto, grande profitto; la
concentrazione mentale, unita alla saggezza è libera da tutti gli
influssi:
ossia dall'influsso della
libidine, dall'influsso dell'essere, dall'influsso dell'opinione,
dall'influsso dell'ignoranza».
Il pranzo avvelenato
Ora il Sublime, dopo aver
sostato per poco a Bhoga, si diresse con Ânanda e con i monaci a Pâvâ
e prese ivi dimora nel bosco di manghi di Cunda, l'orefice.Ora quando
Cunda l'orefice sentì, che il Sublime aveva preso dimora nel suo bosco
di manghi, si recò subito là, salutò il Sublime riverentemente e gli
si sedette accanto. E il Sublime confortò, rallegrò, sollevò e
rasserenò Cunda l'orefice con istruttivo colloquio. Finito il
colloquio, Cunda l'orefice pregò il Sublime, di fargli l'onore di
pranzare l'indomani insieme con i monaci da lui. Il Sublime assenti
col silenzio. Quando ora Cunda l'orefice ebbe ottenuto l'assenso del
Sublime, salutò il Sublime riverentemente, gli girò a destra intorno e
se ne andò.
E l'indomani mattina Cunda
l'orefice fece apparecchiare nella sua casa scelti cibi, tra cui una
pietanza di funghi porcini e fece annunziare al Sublime che tutto era
pronto. E il Sublime prima di mezzogiorno si approntò, prese mantello
e scodella e si recò insieme con i monaci alla casa di Cunda
l'orefice. Là giunto il Sublime si sedette al posto preparatogli e
quindi disse a Cunda:
«Quel che da te, Cunda, è
stato preparato coi funghi porcini, quello servilo a me: degli altri
cibi preparati, solidi e liquidi, servi i monaci».
«Sì, signore!» rispose Cunda
e, obbedendo al Sublime, servì al Sublime i funghi porcini, e ai
monaci gli altri cibi preparati.
Quindi ora il Sublime disse a
Cunda l'orefice:
«Quel che, o Cunda, ti è
rimasto di funghi porcini, gettalo nella fogna: perché io non vedo
alcuno al mondo, da cui quel cibo possa essere mangiato e digerito,
tranne che dal Compiuto».
«Sì, signore! » rispose Cunda
al Sublime. Fece gettare nella fogna quel che era rimasto di funghi
porcini, s'inchinò quindi riverentemente al Sublime e gli si sedette
accanto. Quindi il Sublime confortò, rallegrò, sollevò e rasserenò con
istruttivo colloquio Cunda l'orefice, che gli sedeva accanto, poi si
alzò dal suo posto e se ne andò.
Ora al Sublime, dopo aver
mangiato quel cibo di Cunda l'orefice, sopravvenne grave malore,
dissenteria, con forti, mortali dolori. Questi pure il Sublime
sopportò sereno e consapevole, senza turbarsi.
Quindi ora il Sublime disse ad
Ânanda:
«Andiamo, Ânanda, a Kusinâra».
«Sì, signore!» rispose Ânanda,
seguendo il Sublime.
L'acqua torbida diviene
limpida.
Ho sentito che il saggio, dopo
aver pranzato da Cunda, fu colpito da un grave mortale malore. A causa
dei funghi mangiati il Maestro fu attaccato da morbo: ma, rimessosi
alquanto, il Sublime riprese il cammino. Durante il cammino, però, il
Sublime deviò dalla strada e, fermandosi al piede di un albero, disse
ad Ânanda:
«Di grazia, Ânanda, stendimi
in terra il mantello piegato in quattro: sono stanco, Ânanda, e voglio
sedermi».
«Sì, signore!» rispose Ânanda,
obbedendo al Sublime, e stese a terra il mantello piegato in quattro.
Il Sublime si sedette sul
posto apparecchiato e disse ad Ânanda:
«Di grazia, Ânanda, portami un
poco d'acqua: ho sete, Ânanda, e vorrei bere».
A queste parole il venerabile
Ânanda rispose al Sublime così:
«Adesso, o signore,
cinquecento carri sono passati di qua: traversata dalle ruote l'acqua
scorre torbida e fangosa. Ma qui presso, o signore, scorre la Kakutthâ,
con acqua chiara, fresca, dolce, pura, facilmente accessibile,
deliziosa: là il Sublime potrà bere e anche rinfrescare le membra».
Ma di nuovo il Sublime disse
ad Ânanda:
«Di grazia, Ânanda, dammi un
poco d'acqua: ho sete, Ânanda, e voglio bere».
Allora Ânanda prese la
scodella e scese al ruscello. E quell'acqua, già intorbidata dal
passaggio dei carri, era ora divenuta limpida e pura, sì che Ânanda
poté riempirne la scodella e portarla al Sublime. E il Sublime bevve
l'acqua.
Pukkusa Mallâputta
Ora, in quel mentre, passava
lungo la strada Pukkusa Mallâputta, un discepolo di Âlâra Kalâma, che
si recava da Kusinâra a Pâvâ. E Pukkusa Mallâputta vide il Sublime
seduto al piede dell'albero, si diresse verso di lui, lo salutò
riverentemente e gli si sedette accanto. Accanto seduto, Pukkusa
Mallâputta disse questo al Sublime:
«È meravigliosa, o signore, è
davvero straordinaria, o signore, la pace, in cui possono chiudersi
quelli che si sono distaccati dal mondo!
Una volta, o signore, Âlâra
Kalâma s'era scostato dalla strada, che stava percorrendo, e s'era
seduto al piede d'un albero, per restarvi fino alla sera. Durante quel
tempo passò per la strada, innanzi ad Âlâra Kalâma, una carovana di
cinquecento carri. E un ritardatario che si affrettava per
raggiungerla, chiese ad Âlâra Kalâma se l'avesse vista passare. “No,
amico, non 1' ho vista”. “Ma ne hai sentito il rumore?”. “Non ne ho
sentito il rumore”. “Allora dormivi?”. “No, amico, non dormivo”. “Ma
eri in te stesso?” “Ma sì, amico”. “Allora tu, signore, essendo
cosciente e desto, non hai visto né sentito i cinquecento carri che
certo sono passati di qui: eppure il tuo vestito è coperto della
polvere, da essi sollevata”. “Evidentemente, amico”. Allora quell'uomo
restò sorpreso e meravigliato della profonda pace in cui possono
rinchiudersi gli asceti ed esprimendo la sua ammirazione per Âlâra
Kalâma, proseguì il suo cammino».
«Che pensi però, Pukkusa
Mallâputta, che sia più difficile da effettuare, più difficile da
conseguire: che uno, cosciente e desto, non veda e non senta
cinquecento carri, che gli passino innanzi; o che uno, cosciente e
desto, sotto il cielo scrosciante di pioggia e lampeggiante, tra il
rombare dei tuoni ed il fragore dei fulmini, nulla veda né senta?».
«Che sono, o signore, la vista
ed il rumore di cinquecento, o anche mille carri, in confronto di un
cielo in tempesta, tra il guizzare dei lampi e il rombare dei tuoni?».
«Una volta, Pukkusa Mallâputta,
mentre io dimoravo presso Âtuma, in un pagliaio, e dal cielo
scrosciava la pioggia in tempesta e guizzavano i lampi e rombavano i
tuoni, presso il pagliaio rimasero fulminati due fratelli aratori e
quattro buoi da aratro. Allora una grande folla di gente venne da
Âtuma e si raccolse intorno ai due aratori ed ai quattro buoi uccisi.
Intanto io, essendo uscito dal pagliaio, camminavo su e giù all'aperto
innanzi alla porta di esso. Intanto, un uomo di quella folla, avendomi
salutato ed essendomisi avvicinato, io gli chiesi perché si fosse
raccolta tutta quella gente. “Qui, o signore, mentre infuriava
l'uragano, sono rimasti fulminati due aratori e quattro buoi: perciò
si è radunata tutta questa folla. Ma tu, o signore, dove eri?” “Io
ero, amico, proprio qui”. “Allora dunque, o signore, hai visto?”. “Non
ho visto proprio nulla”. “Ma hai sentito certo lo scoppio!”. “No, non
l'ho sentito”. “Ma allora, o signore, tu dormivi?”. “No, amico, io non
dormivo”. “Ma eri, o signore, cosciente?”. “Ma sì, amico, che ero
cosciente”. “Allora tu, o signore, essendo cosciente e desto, mentre
infuriava quella tempesta di acqua, fulmini e tuoni, non hai visto e
sentito nulla?”. Allora quell'uomo, Pukkusa Mallâputta, pensò: “È
meravigliosa davvero, è sorprendente la profonda pace, in cui si
rinchiudono questi distaccati dal mondo: tale che, essendo essi
coscienti e desti, non si accorgono del bagliore e del fragore di una
simile tempesta!”. E, manifestando grande ammirazione per me, mi girò
a destra intorno e se n'andò».
Dopo queste parole, Pukkusa
Mallâputta disse al Sublime così:
«Ora, o signore, quella mia
ammirazione per Âlâra Kalâma io voglio spargerla al vento e gettarla
nella rapida corrente del fiume. Benissimo, o signore, benissimo, o
signore; così come quasi, o signore, se uno raddrizzasse ciò che è
rovesciato, o svelasse ciò che è celato, o mostrasse la via a sviati,
o portasse luce nell'oscurità, in modo che chi ha occhi possa vedere
le cose: or così anche appunto il Dhamma mi è stato in varia guisa
mostrato dal Sublime. E così, o signore, io prendo rifugio nel Buddha,
nel Dhamma e nel Sangha dei mendicanti: come seguace voglia il Sublime
considerarmi, da oggi per la vita fedele».
Quindi ora Pukkusa Mallâputta,
si volse a una persona del suo seguito:
«Orsù, portami tu quel paio di
veli a trama d'oro».
«Sì, signore!» rispose quell'uomo,
obbedendo al nobile giovane Pukkusa Mallâputta, e gli portò il paio di
veli a trama d'oro. E Pukkusa Mallâputta offrì al Sublime quel paio di
veli a trama d'oro, pregandolo di accettarli, mosso da compassione.
E il Sublime rispose:
«Di codesti due veli, Pukkusa
Mallâputta, con uno copri me, con l'altro Ânanda.» E Pukkusa
Mallâputta, coprì con uno dei due veli il Sublime e con l'altro il
venerabile Ânanda. Quindi ora il Sublime confortò, rallegrò, sollevò e
rasserenò Pukkusa Mallâputta, con istruttivo colloquio. E Pukkusa
Mallâputta, rallegrato e appagato dal discorso del Sublime, si alzò
dal suo posto, salutò riverentemente il Sublime, gli girò a destra
intorno e si allontanò. Ora, non molto tempo dopo che Pukkusa
Mallâputta era andato via, il venerabile Ânanda, acconciando intorno
al corpo del Sublime quel velo aureo, esso apparve come senza
splendore. E il venerabile Ânanda disse:
«È mirabile, o signore, è
straordinario, o signore, come il colore della pelle del Sublime sia
così puro e splendente, che quel velo d'oro, messo addosso al Sublime,
pare che abbia perduto ogni splendore!». «Così è, Ânanda. Due volte,
Ânanda, avviene, che la pelle del corpo del Compiuto appaia così pura
e splendente: la notte, nella quale il Compiuto s'è destato
nell'incomparabile, perfetto risveglio; e la notte, nella quale egli
senza più attaccamento si estingue in totale estinzione. Oggi dunque,
Ânanda, nelle ultime ore della notte, nella terra di Kusinâra, nel
bosco di sâla [shorea robusta, N.d.R.] dei Mallâ, tra due alberi di
sâla, avverrà la totale estinzione del Compiuto. Ed ora, Ânanda,
andiamo all'acqua del fiume Kakutthâ».
«Sì, signore!» rispose Ânanda
al Sublime.
Il Buddha discolpa Cunda
Quindi ora il Sublime, seguito
dai monaci, discese al fiume Kakutthâ, s'immerse nell'acqua, si bagnò,
bevve, e poi, uscito dal fiume, si diresse a un vicino bosco di
manghi. Là giunto, il Sublime disse al venerabile Cundaka:
«Di grazia, Cundaka, stendimi
in terra il mantello piegato in quattro. Sono stanco, Cundaka: vorrei
adagiarmi.».
E il venerabile Cundaka stese
in terra il mantello piegato in quattro. Quindi ora il Sublime si
adagiò sul destro fianco, come il leone, un piede sull'altro piede,
raccolto e cosciente, memore del momento di alzarsi. E il venerabile
Cundaka si sedette là appunto, davanti al Sublime.
Quindi ora il Sublime disse al
venerabile Ânanda: «Può darsi, Ânanda, che qualcuno faccia sorgere
rimorso in Cunda l'orefice, incolpandolo di aver dato al Compiuto
l'ultimo pasto, prima della sua estinzione. Bisogna rincuorarlo e
fargli merito di ciò, dicendogli di aver udito dalla bocca stessa del
Sublime, che due sono i pasti dati in elemosina, i quali sono
meritevoli e giovevoli più di qualsiasi altro pasto: quello dato al
Compiuto prima del suo incomparabile, perfetto risveglio, e quello
dato al Compiuto prima della sua totale estinzione. Con ciò Cunda
l'orefice ha acquistato grande profitto, grande merito, grande
gloria.» Quando ebbe detto ciò, il Sublime aggiunse:
«Chi dà, acquista merito;
chi si raccoglie in sé stesso, non suscita odio; chi è intelligente,
si astiene dal male; chi ha posto fine alla brama, all'avversione,
all'errore, sta in pace».
QUINTA PARTE
L'ultima sosta
Quindi ora il Sublime disse al
venerabile Ânanda: «Andiamo, Ânanda, verso il fiume Hiraññavati e
passiamo sull'altra sponda, nella terra di Kusinâra, per fermarci nel
bosco di sâla dei Mallâ».
Quindi ora il Sublime, seguito
dai monaci, si diresse al fiume Hiraññavati, passò sull'altra sponda,
nella terra di Kusinâra e si fermò nel bosco di sâla dei Mallâ. Là
giunto il Sublime disse al venerabile Ânanda: «Di grazia, Ânanda,
apparecchiami tra due alberi di sâla un giaciglio, col capo a
settentrione: sono stanco, Ânanda, e voglio coricarmi».
«Sì signore!» rispose Ânanda,
obbedendo al Sublime, ed apparecchiò tra due alberi di sâla un
giaciglio, col capo a settentrione. E il Sublime si adagiò sul fianco
destro, come il leone, un piede sull'altro piede, raccolto e
cosciente.
Ora i due alberi di sâla erano
allora in piena fioritura fuori stagione, e i loro fiori cadevano sul
corpo del Sublime, insieme con altri fiori e con polvere di sandalo,
mentre effluvi e suoni celesti si effondevano per l'aria, in gloria
del Sublime. E il Sublime disse ad Ânanda:
«Or vedi, Ânanda, la festa che
fa la natura in gloria del Compiuto. Ma i monaci e le monache, i
seguaci e le seguaci pregiano, onorano, venerano e gloriano il
Compiuto, seguendo il Dhamma, persistendo nel Dhamma, procedendo sulla
retta via del Dhamma. Perciò, Ânanda, voi avete da esercitarvi
seguendo il Dhamma, persistendo nel Dhamma, procedendo per la retta
via del Dhamma».
«Prima, o signore, col cessare
della stagione delle piogge, convenivano da tutti i lati i monaci, per
vedere il Compiuto: così ci era concesso di vedere monaci di alta
mente, e di stare al loro fianco. Ma, dopo la dipartita del Sublime, o
signore, ciò non ci sarà più concesso».
«Quattro siti vi sono, Ânanda,
degni di esser visti e visitati da un nobile figlio fedele: dove il
Sublime è nato, dove il Sublime s' è destato nel supremo perfetto
risveglio, dove il Sublime ha messo in moto l'incomparabile ruota del
Dhamma e dove il Sublime senza attaccamento s'è spento nella totale
estinzione. Questi, Ânanda, sono i quattro siti, degni d'essere visti
e visitati da un nobile figlio fedele. Quelli, che andranno in
pellegrinaggio a tali monumenti e moriranno con cuore puro, con la
dissoluzione del corpo, dopo la morte, passeranno per la buona via in
mondo celeste».
Le donne
«Come dobbiamo comportarci, o
signore, con le donne?».
«Non guardarle, Ânanda».
«Ma una volta viste, o
signore, come dobbiamo comportarci?».
«Non parlarci, Ânanda».
«Ma, avendoci parlato, o
signore, come dobbiamo comportarci?».
«Essere presenti a se stessi,
Ânanda».
Istruzioni per il funerale
«Come dobbiamo regolarci, o
signore, col cadavere del Compiuto?».
«Non vi occupate, Ânanda,
degli onori al cadavere del Compiuto: occupatevi invece, di grazia,
della vostra salvezza, lavorate per la vostra salvezza, lottate
seriamente, fortemente, instancabilmente per la vostra salvezza. Vi
sono, Ânanda, saggi guerrieri, saggi sacerdoti, saggi padri di
famiglia, devoti al Compiuto: essi renderanno gli onori al cadavere
del Compiuto».
«E come, o signore, si procede
col cadavere del Compiuto?».
«Si procede, Ânanda, come col
cadavere di un re guerriero: bruciandolo con tutte le regole e con
tutti gli onori ed erigendo sulle sue reliquie un monumento. Quelli,
che offriranno a tale monumento una corona o un fiore o un profumo, o
si rivolgeranno ad esso con cuore puro: a quelli ciò riuscirà
lungamente di gioia e di felicità».
Dopo queste parole il
venerabile Ânanda si allontanò verso una capanna nel bosco e,
appoggiandosi allo stipite della porta, stette là, piangendo:
«Ahimè, io debbo ancora
esercitarmi e combattere, mentre si estingue e mi lascia il Maestro,
che aveva compassione di me!». Ma il Sublime aveva chiesto ai monaci:
«Dov' è dunque Ânanda, o monaci?». «Il venerabile Ânanda, o signore, è
andato alla capanna e sta là appoggiato alla porta, lamentandosi di
dover restare ancora in vita a lottare, mentre si estingue e lo lascia
il Maestro, che ha compassione di lui». «Va tu, o monaco, e di' a nome
mio ad Ânanda, che il Maestro chiede di lui».
E il monaco andò a chiamare il
venerabile Ânanda, che ritornò verso il Sublime, s'inchinò
riverentemente dinanzi a lui e gli si sedette accanto. E il Sublime
gli parlò ora così:
«Basta, Ânanda; non
rattristarti, non lamentarti. Non ti ho già detto, Ânanda, che tutto
ciò che è caro ed amato, deve perire, svanire, mutarsi? Donde ora,
Ânanda, può essere ottenuto, che ciò che è nato, divenuto, composto,
soggetto al disfacimento, non si disfaccia? Questo non può essere.
Lungamente ora, Ânanda, il Compiuto è stato da te curato, con opere,
con parole, con pensieri amichevoli, amorevoli, sinceri, sconfinati:
hai bene agito, Ânanda; continuando ad esercitarti, presto sarai
salvo».
Dopo queste parole il
venerabile Ânanda disse al Sublime così:
«Voglia, o signore, il Sublime
non spegnersi in questo sito selvaggio, nel mezzo della boscaglia
presso una città insignificante! Vi sono, o Signore, ben altre,
importanti città, come dire Campa, Râjagaha, Sâvatthi, Sakyâ, Kosambi,
Vâranasî; là vi sono potenti guerrieri, sacerdoti, padri di famiglia,
con grandi palazzi; essi potranno rendere degni onori al cadavere del
Sublime.
«Non dire così, Ânanda; non
dire così Ânanda: un sito selvaggio, nel mezzo della boscaglia, presso
una città insignificante! Una volta, Ânanda, v'era un re, chiamato il
Mahâ Sudassana, un re giusto e verace, vincitore in tutt'e quattro i
punti cardinali, il quale aveva dato sicurezza al suo regno. E questo
regno, Ânanda, aveva per capitale Kusinâra, allora chiamata Kusâvatî:
una grande città, ricca, popolosa, splendente, agitata giorno e notte
dal decuplo rumore dei barriti degli elefanti, dei nitriti dei
cavalli, del rotolare dei carri, del battere dei timpani e dei
tamburi, di suoni e di canti, di gridi di gioia ed applausi e di
inviti a bere, mangiare e divertirsi. Va', Ânanda, sali a Kusinâra ed
annunzia ai Mallâ di Kusinâra, che oggi, nelle ultime ore della notte,
il Compiuto si spegnerà. Vogliano quindi essi qui venire, per non aver
poi a provare il rimorso, che presso di loro, nella loro terra è
avvenuta l' estinzione del Compiuto, ed essi non si sono trovati
presenti agli ultimi momenti del Compiuto.
«Sì, signore!» rispose Ânanda
e, obbedendo al Sublime, prese mantello e scodella e si avviò da solo
a Kusinâra. In quel mentre i Mallâ di Kusinâra erano adunati nella
sala dell'assemblea, per sbrigare i loro affari; e il venerabile
Ânanda vi si recò, per riferire il messaggio del Sublime. AIl'udir
quell'annunzio, tutti i Mallâ, gli uomini, le donne ed i loro figli,
rimasero colpiti, turbati, rattristati, battendosi il petto con le
mani, strappandosi i capelli e lamentandosi: «Ahi, troppo presto si
spegnerà il Sublime, troppo presto si chiuderà l'Occhio del mondo!».
Quindi ora tutti i Mallâ, uomini, donne e bambini, tristi e dolenti,
discesero nella campagna e si diressero con il venerabile Ânanda al
bosco di sâla. E il venerabile Ânanda presentò i Mallâ al Sublime, non
persona per persona, che non sarebbe bastato il tempo, ma gente per
gente, famiglia per famiglia: così già nelle prime ore della notte
egli aveva potuto presentare al Sublime tutti i Mallâ di Kusinâra.
Subhadda, l'ultimo discepolo
In quel tempo era giunto a
Kusinâra un pellegrino di nome Subhadda, il quale, avendo anche egli
appreso la notizia della prossima dipartita del Sublime, si presentò
al venerabile Ânanda e gli disse: «Ho sentito dire, Ânanda, da vecchi
pellegrini, da antichi, dotti maestri, quando parlavano tra loro, che
raramente appaiono Compiuti nel mondo, santi, perfetti Svegliati. E
questa notte si spegnerà qui l'asceta Gôtama. Ora è sorto in me un
dubbio sopra una cosa; ed io ho fiducia, che l'asceta Gôtama possa
risolvermi tale dubbio. Forse mi sarà concesso, di vedere il Sublime».
A queste parole il venerabile
Ânanda rispose: «Basta, amico Subhadda: non infastidire il Sublime; è
stanco il Sublime».
E per la seconda e la terza
volta Subhadda ripetè la sua preghiera ed Ânanda oppose il suo
rifiuto: finché il Sublime senti questa discussione tra il venerabile
Ânanda e Subhadda e si rivolse al venerabile Ânanda: «Basta, Ânanda,
non opporti a Subhadda: egli può vedere il Compiuto. Qualunque cosa
Subhadda chiederà, la chiederà per desiderio di sapere, non per dare
fastidio: e tutto quello che io, interrogato, gli risponderò, egli
subito lo comprenderà».
Allora il venerabile Ânanda
disse a Subhadda: «Vieni, amico Subhadda, il Sublime acconsente».
Allora Subhadda il pellegrino si avanzò verso il Sublime, scambiò con
lui cortese saluto e notevoli, amichevoli parole e gli si sedette
accanto. Accanto seduto Subhadda il pellegrino disse ora al Sublime
così: «Quegli asceti e sacerdoti, signore Gôtama, quei capi di scuole,
seguiti da numerosi discepoli, noti e famosi pionieri, di grande
rinomanza tra le genti, come Purana Kassapa, Makkhali Gosâla, Ajita
Kesakambalî, Pakudha Kaccâyana, Sañjaya Belatthiputta, Nigantha
Nâthaputta: tutti costoro sanno, come ciascuno di sé assicura, o tutti
non sanno, od alcuni di essi sanno od altri non sanno?».
«Basta, Subhadda: lascia stare
se tutti costoro sanno come ciascuno di essi di sé assicura, o tutti
non sanno, od alcuni sanno ed altri non sanno. Io ti esporrò
l'insegnamento: ascoltalo, Subhadda, e fa bene attenzione a quel che
dirò».
«Sì, signore! » rispose
Subhadda il pellegrino al Sublime.
Il Sublime disse questo:
«In qualsiasi regola e
insegnamento, Subhadda, non si trovi il nobile ottuplice sentiero là
neanche si trova il vero ascetismo. Ed in qualsiasi regola e
insegnamento, Subhadda, si trovi il nobile ottuplice sentiero; là si
trova anche il vero ascetismo. Ora in questa regola e insegnamento,
Subhadda, si trova il nobile ottuplice sentiero: qui dunque, Subhadda,
si trova il vero ascetismo, vuoto di dispute con altri asceti. E se
questi monaci, Subhadda, persevereranno nella retta via, il mondo non
sarà privo di santi. A ventinove anni d'età, Subhadda, mi distaccai
dal mondo, in cerca di salvezza. Cinquantuno anni sono ora per me
passati di ascetica vita, per vari luoghi vagando, il vero
insegnamento esponendo, fuor della quale vero ascetismo non v'è. Se
questi monaci quindi, Subhadda, persevereranno nella retta via, il
mondo non mancherà di santi».
Dopo queste parole Subhadda il
pellegrino disse al Sublime così:
«Benissimo, o signore,
benissimo, o signore! Così come quasi, o signore, se uno raddrizzasse
ciò che è rovesciato, o scoprisse ciò che è coperto, o mostrasse la
via a sviati, o portasse luce nell'oscurità, in modo che chi ha occhi
veda le cose: or così anche appunto il Sublime mi ha esposto
l'insegnamento. E così io, o signore, prendo rifugio nel Buddha, nel
Dhamma e nel Sangha. Voglia il Sublime concedermi accoglienza,
impartirmi l'ordinazione».
«Chi prima, Subhadda, seguiva
altra credenza e vuole poi avere ammissione ed ordinazione in questa
regola e insegnamento, vi resta per quattro mesi; se dopo scorsi
quattro mesi egli persiste, allora monaci provetti gli concedono
l'ammissione e l'ordinazione nella vita monacale: perché io ho
conosciuto una certa mutabilità».
«Se, o signore, per i seguaci
di altra credenza è prescritto un periodo di prova di quattro mesi, io
voglio restare qui quattro anni, prima di essere ammesso ed ordinato».
A questo il Sublime disse al
venerabile Ânanda:
«Allora, Ânanda, accogli
Subhadda».
« Sì, o signore! » rispose il
venerabile Ânanda obbedendo al Sublime. E Subhadda fu accolto ed ebbe
l'ordinazione presso il Sublime. E non da molto tempo il venerabile
Subhadda era stato accolto nell'Ordine, che già egli, solitario,
appartato, con strenuo sforzo lottando, aveva ben presto, ancora in
vita, fatto a sé palese, realizzato e raggiunto quel sommo fine
dell'ascetismo, che attira i nobili figli dalla casa al distacco dal
mondo, riconoscendo: «Estinta è la nascita, compiuta la santità,
ultimata l'opera, non esiste più questo mondo.» Egli fu l'ultimo
discepolo personale del Sublime.
SESTA PARTE
Ultime parole del Buddha
Quindi ora il Sublime disse al
venerabile Ânanda:
«Può darsi, Ânanda, che voi
pensiate: “Finito è l' insegnamento del Maestro, noi non abbiamo più
Maestro!”. Ma la cosa, Ânanda, non dev'essere vista così. Quel che da
me, Ânanda, vi è stato mostrato ed insegnato come regola e come
insegnamento: quello, dopo la mia dipartita, sarà il vostro Maestro».
Quindi il Sublime si rivolse
ai monaci:
«Se anche uno di voi, o
monaci, sia in dubbio o in pensiero sul Buddha o sul Dhamma o sul
Sangha o sulla via o sui passi, faccia domande ora ora, o monaci,
perché poi non abbiate a provare rimorso: “Innanzi ai nostri occhi era
il Maestro, e noi non interrogammo personalmente il Sublime!”».
Così esortati, i monaci
rimasero silenti. Allora il Sublime disse ai monaci così:
«Può darsi, o monaci, che voi
non interroghiate per rispetto del Maestro: allora lo dica l'amico
all'amico». Ma, anche così esortati, quei monaci rimasero silenti.
Allora il venerabile Ânanda disse al Sublime: «È mirabile, o signore,
è straordinario, o signore! Io ho tale fede, o signore, in questo
Ordine di mendicanti, da credere che non vi sia in esso anche un solo
monaco, che sia in dubbio od in pensiero sul Buddha, sul Dhamma o sul
Sangha o sulla via o sui passi».
«Di fede ora tu, Ânanda,
parli; conoscenza ha però qui il Compiuto: non v'è in questo Ordine di
mendicanti anche un solo monaco, che sia in dubbio od in pensiero sul
Buddha, sul Dhamma o sul Sangha o sulla via o sui passi. Anche
l'infimo di tutti questi monaci, Ânanda, è giunto all'audizione, è
scampato al danno, si avanza cosciente verso il completo risveglio».
Quindi ora il Sublime si
rivolse ai monaci. «Orsù dunque, o monaci, io vi esorto: periscono
tutte le cose; datevi da fare per la vostra salvezza senza tregua».
Questa fu l'ultima parola del
Sublime.
Il trapasso
Quindi il Sublime s'immerse in
una serie di estasi successive, finché fu completamente estinto. E con
l'estinzione del Sublime un fremito scosse la terra e passò per
l'universo.
Con l'estinzione del Sublime,
Brahmâ Sahampati, il possente, fece sentire questi accenti:
«Tutti gli esseri nel mondo
trapassano ed i corpi si sfanno: così questo Maestro, senza pari nel
mondo, compiuto, potente, svegliato, s'è estinto».
Con l'estinzione del Sublime
Sakka, il re degli dei, fece sentire questi accenti:
«Impermanenti son tutte le
cose, nate solo per perire, sorgono per tramontare: beato chi ne vede
la fine».
Con l'estinzione del Sublime
il venerabile Anuruddha fece sentire questi accenti:
«Senza più trarre sospiro o respiro,
sereno, tranquillo il saggio s' è spento.
Impavido avendo sopportato il dolore,
come una lampada si spegne, così Egli si estinse».
Con l'estinzione del Sublime
il venerabile Ânanda fece sentire questi accenti:
«Un grande brivido passò per il
mondo,
quando il perfetto Svegliato si estinse».
Con l'estinzione del Sublime
alcuni monaci, con passione ancora non spenta, affranti e dolenti si
lamentavano: «Troppo presto il Sublime si è estinto, troppo presto il
Benvenuto si è estinto, troppo presto l'Occhio del mondo si è
spento!». Quei monaci, però, nei quali la passione era spenta, quelli
restarono scienti e coscienti: «Impermanenti sono tutte le cose: non
può essere altrimenti». E il venerabile Anuruddha si rivolse ai
monaci: «Basta, fratelli: non vi contristate, non vi lamentate. Non ci
ha il Sublime già ripetutamente detto che tutte le cose care ed amate
periscono, trapassano, si mutano? Come si può ottenere, che ciò che è
nato, divenuto, composto, soggetto al disfacimento, non si disfaccia?
Ciò non può essere».
Quindi ora il venerabile
Mahakassapa, insieme con i i suoi monaci, si affrettò verso Kusinâra e
giunse fuori della porta orientale, presso il monumento dei Mallâ,
dove era eretto il rogo, ancora in tempo, prima che fosse dato alle
fiamme. E il venerabile Mahakassapa denudò del mantello una spalla,
giunse le mani sulla fronte, girò tre volte verso destra intorno alla
pira ed inchinò riverentemente la testa ai piedi del Sublime. Ed
altrettanto fecero gli altri monaci. Dopo quest’omaggio reso al
Sublime da Mahakassapa e dai monaci, si accese il rogo.
Ora quando il corpo del
Sublime fu consumato dalle fiamme, di quel che in esso v’era di pelle,
di tendini, di carne di nervi e di liquidi, non ve n’erano rimasti
neanche carboni e ceneri: le ossa solo erano rimaste. Cosí come quasi
del burro e dell’olio bruciato nulla resta, or cosí anche appunto del
corpo bruciato del Sublime nulla era rimasto, tranne le ossa. E un
rovescio d’acqua dal cielo spense le ceneri del rogo, su cui anche i
Mallâ di Kusinâra versarono acque odorose, in onore del Sublime.
La spartizione delle reliquie
Quindi ora i Mallâ portarono
le reliquie del Sublime nella sala del parlamento di Kusinâra e ve le
tennero per una settimana, cingendole di uno steccato di lance e di un
traliccio di archi e rendendo loro omaggio, riverenza ed onore con
musiche, canti, corone di fiori e profumi.
Intanto il re Ajâtasattu di
Mâgadha, il figlio della Vedehi, aveva sentito che il Sublime si era
estinto a Kusinâra, e mandò un messo ai Mallâ, per dir loro che,
siccome il Sublime era di nascita un guerriero ed anche egli era di
nascita un guerriero, gli spettava una parte delle reliquie del
Sublime, sulle quali avrebbe eretto un tumulo, in memoria ed onore.
Contemporaneamente giungevano a Kusinâra i messi dei Licchavi di
Vesâli, dei Sakyâ di Kapilavatthu, dei Buliya di Allakappa, dei Koliya
di Râmagâma, dei Mallâ di Pâvâ, nonché del brahmano Vethadipaka: i
quali, per le stesse ed analoghe ragioni, chiedevano anch’essi una
parte delle reliquie del Sublime, per erigervi sopra un monumento, in
segno di memoria e di onore.
A tutti questi messi i Mallâ
di Kusinâra risposero: «Il Sublime si è estinto nel nostro territorio:
noi non daremo alcuna parte delle reliquie del Sublime».
Allora il brahmano Dona fece a
tutti questo discorso: che lo Svegliato aveva sempre raccomandato la
virtú della pazienza e non sarebbe stato quindi bene, che sorgesse
zuffa per la divisione delle reliquie del Superuomo; che perciò
fossero tutti concordi nel dividere equamente le reliquie in otto
parti, avendo di mira i futuri, famosi monumenti che avrebbero
attratto le genti alla memoria del Veggente. Tutti acconsentirono a
questa proposta. Ed il brahmano Dona, dopo aver diviso equamente le
reliquie in otto parti, chiese come compenso per sé il vaso della
cremazione, sul quale avrebbe eretto anch’egli un monumento, in segno
di memoria e di onore.
Intanto i Moriyâ di
Pipphalivani avevano appreso anche essi, con ritardo, la notizia
dell’estinzione del Sublime e mandarono a chiedere, quali guerrieri,
anche per loro una parte delle reliquie. Ma, essendo state queste già
tutte divise, furono dati loro i carboni e le ceneri del rogo, su cui
potessero essi pure erigere un monumento.
Quindi ora il re Ajâtasattu di
Mâgadha fece con grandi feste erigere a Râjagaha il monumento sulle
reliquie del Sublime; e cosí i Licchavi a Vesâli, i Sakyâ a
Kapilavatthu, i Thulia ad Allakappa, i Koliya a Râmagâma, il brahmano
Vethadipaka, i Mallâ a Pâvâ, i Mallâ a Kusinâra, il brahmano Dona ed i
Moriyâ a Pipphalivani: tutti eressero, tra grandi feste, i loro
monumenti sulle reliquie del Sublime.
Cosí questo avvenne allora.