Racconti
ZEN
Camminando in un mercato, Banzan
colse un dialogo tra un macellaio e un suo cliente. "Dammi il miglior
pezzo di carne che hai" disse il cliente.
"Nella mia bottega tutto è il migliore" ribattè il macellaio. "Qui non
trovi un pezzo di carne che non sia il migliore".
A quelle parole Banzan fu illuminato.
Quando Bankei
predicava nel tempio Ryumon, un prete Shinshu, che credeva nella
salvezza ottenuta ripetendo il nome del Buddha dell’Amore, si ingelosì
del suo vasto pubblico e volle discutere con lui.
Bankei stava parlando allorché comparve il prete, ma questo creò una
tale confusione che Bankei si interruppe e domandò che cosa fosse
tutto quel baccano.
«Il fondatore della nostra setta» si vantò il prete «aveva poteri così
miracolosi che stando su una riva del fiume con un pennello in mano
riusciva a scrivere attraverso l’aria il sacro nome di Amida su un
foglio che un suo assistente reggeva sull’altra riva.
Tu puoi fare
questa cosa prodigiosa?
Bankei rispose gaiamente: «Forse questo gioco di prestigio può farlo
la tua volpe, ma non è questo il modo dello Zen. Il mio miracolo è che
se ho fame mangio, e se ho sete bevo».
Un maestro zen si era fermato,
durante un viaggio, in un tempio.
Poiché faceva freddo, per non morire congelato, aveva preso una statua
di legno del Buddha e le aveva dato fuoco.
Il custode del tempio, vedendo le fiamme, si era svegliato ed era
accorso: credeva che si trattasse di un incendio.
Quando vide quel che succedeva, fu sconvolto dal sacrilegio. "Che cosa
hai fatto?" gridò. "Hai bruciato il corpo del Buddha!"
Il maestro prese un bastone e si mise a frugare tra le ceneri.
"E ora che cosa fai?" gli domandò il custode.
"Cerco le ossa del Buddha."
"Quali ossa? Non vedi che è una statua di legno?"
"Allora, per favore, portami un altro Buddha da bruciare."
Durante un
viaggio verso il tempio di Hosaka, il Maestro Tezui rifletteva sullo
Zen quando fu bloccato da un bandito mongolo. Tezui non si spaventò in
seguito alla minaccia del bandito:
"Dammi tutti i tuoi averi se vuoi salva la vita!".
Il maestro fece un passo in avanti e allargando le
braccia disse:
"Prendi pure..."
"Vuoi forse morire?" chiese il mongolo.
Tezui rispose serafico: "Io ti sto offrendo tutti i
miei averi:
me stesso. Ora tu mantieni la promessa, e lasciami salva la vita".
Il bandito si accorse della saggezza del Maestro
Tezui e fu illuminato. Cinquant'anni dopo il Maestro mongolo Okawa
reggeva il tempio di Hosaka.
Gli insegnanti
di Zen abituano i loro giovani allievi a esprimersi. Due templi Zen
avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni
mattina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure,
incontrava l’altro per la strada.
«Dove vai?» domandò il primo.
«Vado dove vanno i miei piedi» rispose l’altro.
Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere
aiuto al suo maestro. «Quando domattina incontrerai quel bambino,» gli
disse l’insegnante «fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa
risposta, e allora tu domandagli: “Fa’ conto di non avere i piedi:
dove vai, in quel caso?”. Questo lo sistemerà».
La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo.
«Dove vai?» domandò il primo bambino.
«Vado dove soffia il vento» rispose l’altro.
Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al
maestro la propria sconfitta.
«E tu domandagli dove va se non c’è vento» gli consigliò il maestro.
Il giorno dopo i ragazzi si incontrarono per la terza volta.
«Dove vai?» domandò il primo bambino.
«Vado al mercato a comprare le verdure» rispose l’altro.
Quando era un
giovane studente di Zen, Yamaoka Tesshu andava sempre a trovare tutti
i maestri. Andò a far visita a Dokuon di Shokoku.
Volendo mostrare la sua preparazione, disse:
«La mente, Buddha e gli esseri senzienti, in fondo, non esistono. La
vera natura dei fenomeni è il vuoto. Non c’è nessuna realizzazione,
nessuna illusione, nessun saggio, nessuna mediocrità. Non c’è nessuno
che dia e niente che si riceva».
Dokuon, che stava fumando in silenzio, non fece commenti. Tutt’a un
tratto colpì Yamaoka con la sua pipa di bambù. Questo fece arrabbiare
moltissimo il giovane.
«Se niente esiste,» domandò Dokuon «da dove viene questa tua
collera?».
Un monaco chiese:
"Chi è il mio Maestro?"
Chao Chou rispose:
"Le nuvole stanno passando tra le montagne -
Cadendo nella valle, l'acqua non fa rumore."
Il monaco disse:
"Non è questo quello che ho chiesto."
Chao Chou disse:
"La natura è il tuo Maestro.
Sei tu che non te ne accorgi."
Un monaco curioso chiese: "Cos'è
la Via?".
"E' proprio di fronte ai tuoi occhi!" Rispose il maestro.
"Perché non riesco a vederla da me?".
"Perché stai pensando a te!".
"E tu? La puoi vedere?" Chiese ancora il monaco.
"Finché tu vedi doppio, e dici - io non vedo e tu vedi - e così via,
i tuoi occhi restano annebbiati"
Rispose il maestro.
"Quando non c'è né io né tu, posso vederla?" Insistette l'allievo.
"Quando non c'è né io né tu, chi è che vuole vederla?"
Come il cielo vuoto, non ha confini.
Eppure è proprio qui,
sempre profondo e chiaro.
Quando cerchi di conoscerlo, non puoi vederlo.
Non puoi aggrapparti ad esso,
ma nemmeno puoi perderlo.
Nel non riuscire ad afferrarlo, lo ottieni.
Quando sei in silenzio, parla;
quando parli, è in silenzio.
Nan-in, un maestro giapponese
dell'èra Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore
universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.
Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a
versare.
Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a
contenersi. «E' ricolma. Non ce n'entra più!».
«Come questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e
congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua
tazza?».
Gli studenti di
Zen fanno voto di impegnarsi a studiare lo Zen anche se per questo
dovessero rischiare di essere uccisi dal proprio insegnante. Di solito
si fanno un taglio su un dito e suggellano col sangue la loro
decisione. Col passare del tempo il voto è diventato una semplice
formalità, e per questa ragione l’allievo che morì per mano di Ekido
fu fatto apparire come un martire.
Ekido era diventato un insegnante severo. I suoi allievi lo temevano.
Un discepolo che era di servizio, nel battere il gong per annunciare
l’ora, sbagliò i rintocchi perché il suo sguardo fu attratto da una
bella ragazza che passava davanti al cancello del tempio.
Immediatamente Ekido, che stava proprio alle sue spalle, lo percosse
con un bastone e quel colpo uccise l’allievo.
Il tutore dell’allievo, informato dell’incidente, andò subito da Ekido.
Rendendosi conto che il maestro non aveva nessuna colpa, lo elogiò per
la sua severità. Il contegno di Ekido era esattamente quello di
sempre, come se l’allievo fosse ancora vivo.
Dopo che accadde questo episodio, si formarono sotto la sua guida più
di dieci successori illuminati, che è un numero molto fuori dal
comune.
Il maestro di Zen Hakuin era
decantato dai vicini per la purezza della sua vita.
Accanto a lui abitava una bella ragazza giapponese, i cui genitori
avevano un negozio di alimentari. Un giorno, come un fulmine a ciel
sereno, i genitori scoprirono che era incinta.
La cosa mandò i genitori su tutte le furie. La ragazza non voleva
confessare chi fosse l'uomo, ma quando non ne poté più di tutte quelle
insistenze, finì col dire che era stato Hakuin.
I genitori furibondi andarono dal maestro. "Ah sì? " disse lui come
tutta risposta.
Quando il bambino nacque, lo portarono da Hakuin. Ormai lui aveva
perso la reputazione, cosa che lo lasciava indifferente, ma si occupò
del bambino con grande sollecitudine. Si procurava dai vicini il latte
e tutto quello che occorreva al piccolo.
Dopo un anno la ragazza madre non resistette più. Disse ai genitori la
verità: il vero padre del bambino era un giovanotto che lavorava al
mercato del pesce.
La madre e il padre della ragazza andarono subito da Hakuin a
chiedergli perdono, a fargli tutte le loro scuse e a riprendersi il
bambino.
Hakuin non fece obiezioni. Nel cedere il bambino, tutto quello che
disse fu: "Ah sì?".
Chi percorra in America le varie
Chinatowns, non mancherà di notare la statua di un uomo vigoroso che
porta in spalla un sacco di tela.
I mercanti cinesi lo chiamano il Cinese Felice o il Buddha che ride.
Questo Hotei visse al tempo della dinastia T'ang. Non aveva alcun
desiderio di definirsi maestro di Zen né di radunare molti discepoli
intorno a sé.
Invece girava per le strade con un grosso sacco di tela pieno di
canditi, frutta e frittelle dolci da dare in regalo. E li distribuiva
ai bambini che si raccoglievano intorno a lui per giocare. Aveva
istituito un giardino d'infanzia della strada.
Ogni volta che incontrava un devoto di Zen gli tendeva la mano
dicendo: «Dammi un centesimo, uno solo». E se qualcuno lo pregava di
tornare in un tempio e di insegnare, lui ripeteva: «Dammi un
centesimo».
Una volta, mentre era intento al suo lavoro-gioco, passò un altro
maestro di Zen e gli domandò: «Qual'è il significato dello Zen?». Per
tutta risposta , Hotei posò immediatamente il sacco a terra.
«Allora,» domandò l'altro «qual'è l'attuazione dello Zen?». Subito il
Cinese Felice si rimise il sacco in spalla e continuò per la sua
strada.
Un maestro
offri al suo discepolo un melone.
" Come ti sembra? " gli domandò. " Ha gusto? ".
" Oh, si! Un gusto squisito! " rispose il discepolo.
Il maestro gli pose allora questa domanda: " Dov'è il gusto, nel
melone o nella lingua? ".
Il discepolo rifletté e si addentrò nei meandri di un complesso
ragionamento: "Il sapore deriva dell'interdipendenza, non solo tra il
gusto del melone e quello della lingua, ma anche dall'interdipendenza
tra...".
"Stolto! Tre volte stolto!" lo interruppe il maestro, in un impeto
d'ira. "Perché complichi il tuo modo di pensare? Il melone è buono.
Basta questo per spiegarne il gusto. La sensazione è buona. Di altro
non c'è bisogno".
Un uomo ricco chiese a Sengai di
scrivergli qualche cosa per la continua prosperità della sua famiglia,
così che si potesse custodirla come un tesoro di generazione in
generazione. Sengai si fece dare un grande foglio di carta e scrisse:
«Muore il padre, muore il figlio, muore il nipote».
L’uomo ricco andò in collera. «Io ti avevo chiesto di scrivere
qualcosa per la felicità della mia famiglia! Perché mi fai uno scherzo
del genere? ».
«Non sto scherzando affatto» spiegò Sengai. «Se prima che tu muoia
dovesse morire tuo figlio, per te sarebbe un grande dolore. Se tuo
nipote morisse prima di tuo figlio, ne avreste entrambi il cuore
spezzato. Se la tua famiglia, di generazione in generazione, muore
nell’ordine che ho detto, sarà il corso naturale della vita. Questa
per me è la vera prosperità».
Ryokan votò la propria vita allo
studio dello Zen. Un giorno venne a sapere che suo nipote, nonostante
i rimproveri dei parenti, sperperava il proprio denaro per una
cortigiana. Poiché questo nipote amministrava i beni della famiglia al
posto di Ryokan, e c’era pericolo che dilapidasse la loro fortuna, i
parenti chiesero a Ryokan di intervenire.
Ryokan dové intraprendere un lungo viaggio per visitare il nipote, che
non vedeva da anni. Il nipote parve contento di rivedere lo zio e lo
invitò a passare la notte in casa sua.
Ryokan rimase in meditazione tutta la notte. La mattina dopo, mentre
stava per partire, disse al giovane: «Evidentemente sto invecchiando,
perché mi trema la mano. Vuoi aiutarmi a legare il laccio del mio
sandalo?». Il nipote lo aiutò volentieri. «Grazie, » disse Ryokàn
«vedi, un uomo diventa più vecchio e più debole di giorno in giorno.
Abbi cura dite». Poi se ne andò, senza nemmeno far cenno alla
cortigiana o alle lamentele dei parenti. Ma da quella mattina il
nipote smise di far vita dissoluta.
Matajuro Yagyu era il figlio di un
famoso spadaccino. Suo padre, convinto che l’attitudine del figlio
fosse troppo scarsa per fargli raggiungere la maestria, lo disconobbe.
Così Matajuro andò sul Monte Futara e là trovò il famoso spadaccino
Banzo. Ma Banzo confermò il giudizio del padre. «Tu vuoi imparare a
maneggiare la spada sotto la mia guida?» domandò Banzo. «Ti mancano i
requisiti indispensabili ».
«Ma se lavoro sodo, quanti anni mi ci vorranno per diventare un
maestro?» insistette il giovane.
«Il resto della tua vita» rispose Banzo. «Non posso aspettare tanto»
disse Matajuro. «Se accetti di darmi lezione, sono pronto a sottopormi
a qualunque fatica. Se divento il tuo devotissimo servo, quanto tempo
ci vorrà? ».
«Oh, dieci anni, forse» disse Banzo addolcendosi.
«Mio padre si sta facendo vecchio e presto dovrò prendermi cura di
lui» continuò Matajuro. « Se lavoro ancora più assiduamente, quanto
tempo mi ci vorrà?».
«Oh, forse trent’anni» rispose Banzo.
«Ma come!» disse Matajuro. «Prima hai detto dieci anni, e ora trenta!
Accetterò qualunque privazione pur di imparare quest’arte nel tempo
più breve!».
«Be’,» disse Banzo «allora dovrai restare con me settant’anni. Un uomo
che ha tanta fretta di ottenere dei risultati raramente impara alla
svelta».
«E va bene» dichiarò il giovane, comprendendo infine che si gli stava
rimproverando la sua impazienza. «Accetto».
Matajuro ebbe l’ordine di non parlare mai di scherma e di non toccare
mai una spada. Cucinava per il suo maestro, lavava i piatti, gli
rifaceva il letto, puliva il cortile, curava il giardino, tutto senza
che si parlasse mai di scherma.
Passarono tre anni. Matajuro continuava a lavorare. Pensando al
proprio avvenire era triste. Non aveva ancora cominciato a imparare
l’arte alla quale aveva votato la propria vita.
Ma un giorno Banzo scivolò alle sue spalle e gli diede un colpo
terribile con una spada di legno.
L’indomani, mentre Matajuro stava cucinando del riso, Banzo tutt’a un
tratto gli saltò di nuovo addosso.
Da allora, giorno e notte, Matajuro dovette difendersi dagli assalti
inaspettati. Non c’era giorno, non c’era momento che non dovesse
pensare al sapore della spada di Banzo.
Imparò così in fretta che la faccia del suo maestro era raggiante di
sorrisi. Matajuro divenne il più grande spadaccino del paese.
Zengetsu, un maestro cinese della
dinastia T’ang, scrisse per i suoi allievi i seguenti consigli:
Vivere nel mondo e tuttavia non stringere legami con la polvere del
mondo è la linea di condotta di un vero studente di Zen.
Quando assisti alla buona azione di un altro, esortati a seguire il
suo esempio. Nell’aver notizia dell’errore di un altro, raccomandati
di non imitarlo.
Anche da solo in una stanza buia comportati come se avessi di fronte
un nobile ospite. Esprimi i tuoi sentimenti, ma non diventare più
espansivo di quanto la tua vera natura ti detti.
La povertà è il tuo tesoro. Non barattarla mai con una vita agiata.
Una persona può sembrare sciocca e tuttavia non esserlo. Può darsi che
stia solo proteggendo con cura il suo discernimento.
Le virtù sono i frutti dell’autodisciplina e non cadono dal cielo da
sole come la pioggia o la neve.
La modestia è il fondamento di tutte le virtù. Lascia che i tuoi
vicini ti scoprano prima che tu ti sia rivelato.
Un cuore nobile non si mette mai in mostra. Le sue parole sono come
gemme preziose, sfoggiate raramente e di grande valore.
Per uno studente sincero, ogni giorno è un giorno fortunato. Il tempo
passa ma lui non resta mai indietro. Né la gloria né l’infamia possono
commuoverlo.
Critica te stesso, non criticare mai gli altri. Non discutere di ciò
che è giusto e di ciò che è sbagliato.
Alcune cose, benché giuste, furono considerate sbagliate per intere
generazioni. Poiché è possibile che il valore del giusto sia
riconosciuto dopo molti secoli, non c’è alcun bisogno di pretendere un
riconoscimento immediato. Vivi con un fine e lascia i risultati alla
grande legge dell’universo. Trascorri ogni giorno in serena
contemplazione.